“‘O ssaje comme fa ‘o core”

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Ci sono pensieri che vagano nella mente senza riuscire ad esprimersi, qualcosa che appare e scompare, un sentimento, un flash, una giornata di Sole nell’anima che resta là e non sa parlare.

Poi arriva una musica, un verso, una poesia, un’immagine che esprime tutto e tu resti lì immobile, dici: “Ecco qua, anche io l’ho sempre pensata sta cosa, ma non sapevo come dirla”.

L’artista (quello universale) fa questo: dà una voce, un colore, un corpo a qualcosa che era rimasto ideale, intimamente nascosto fino a quel momento.

Una passeggiata nei vicoli della mia città come ve la racconto? l’odore del caffè che esce dalle case alle sette del mattino, i panni stesi (sarebbe più corretto dire “spasi”) al Sole, la signora che spazza fuori alla porta del suo “basso” e canta, e tu che non ti senti solo, ti senti parte di qualcosa, come un personaggio di un bellissimo presepe, che come tutte le cose sublimi ti accoglie e ti spaventa allo stesso tempo.

Un luogo di incertezze, dove si vive alla giornata, dove “ognuno aspett’ a ciorta”. Vivere a Napoli significa vedere una bellezza spiazzante e dolorosa, una bella donna in agonia. Pino Daniele era un napoletano che questi vicoli li conosceva bene ma anche “un nero a metà”, come amava definirsi lui.

Lui che è riuscito a fondere blues, jazz, ritmi lontani dalla sua terra, con la chitarra, il mandolino, i tamburelli, con la musicalità della lingua napoletana. Lui che una passeggiata a Napoli te la fa fare dentro una canzone, tanto che dai “Brothers in soul” poi si iniziò a parlare di “neapolitan power” in risposta alla musica nera che veniva dalle strade dei ghetti americani, così lontani e così vicini ai quartieri bui di Napoli. Non mi stupirebbe sapere che stamattina prima di andare via si fosse andato a fare l’ultima passeggiata per il suo gomitolo di strade, e se chiudiamo gli occhi e schiacciamo play possiamo farla anche noi con lui.

Parte la musica, il sax ti fa sentire il vento caldo che soffia, il tamburo è un cerchio rosso come il Sole che ti tocca gli occhi, la chitarra sa già di mare. Eccoci, siamo seduti a Mergellina, l’aria salmastra ci sta curando tutte le ferite del cuore, resto ferma lì e “so cuntent’ e sta”. Ci sono parole intraducibili in un’altra lingua che non sia questa, quelle stesse parole, espressioni idiomatiche che usava lui per dipingere le emozioni. Come ve la spiego “appucundria”? Appucundria non è noia, non è dispiacere, è un misto tra la malinconia e lo spleen inglese, è una parola che useresti per descrivere una domenica pomeriggio grigia, è una parola che solo per pronunciarla ti fa assumere la stessa espressione di quando dici “uffa!”, è evocativa e liberatoria allo stesso tempo.

Pino ha spiegato anche questo “appuncundria mi sbatte ogni minut’ n’pietto”. E l’amore come lo spieghi? Anzi l'”ammor'” con due M, perchè è più forte, è più di cuore : “l’ammore si è carnal’, te cura e te fa male, te piglia a muorz’ n’faccia, chiur’ l’uocchie e po’ t’abbraccia”.

Devo farvi la perifrasi? questa non ve la spiego perchè “l’ammor’ è cosa e pazz e nun se po’ spiegà”.

Tutto questo potrebbe sembrare un quadretto idilliaco, e invece Pinuccio cammina con le mani in tasca per le strade della città e continua il suo racconto, ogni tanto si accende una sigaretta, e osserva.

C’è il disincanto di un Masaniello che si trucca di nero, impazzito a furia di lottare contro le miserie di questa terra abbandonata a se stessa, della famosa agente di cui non ci vergogniamo semplicemente ma “ce mettimm’ scuorn”, dell’ignominia della criminalità, della disoccupazione.

Questo Pulcinella piange sotto la maschera, il suo è un riso amaro, la gente tira a campare e un po’ per pigrizia, un po’ per noncurante negligenza, un po’ anche per paura di qualche ripercussione, per omertà si ribella raramente, e lentamente il peggio mangia il meglio, lo sovrasta, lo avvelena. La famosa “carta sporca” sta buttata là per terra “e nisciun se ne importa”. Una città che spesso costringe a partire, diceva Eduardo “fujitavenne”, Troisi (amico suo) sorridente parlava dell’emigrante, e Pinuccio pure tu lo sapevi meglio di chiunque altro quanta indifferenza sa dare lo Stato, l’amministrazione a chi vive qui, perchè come dicevi tu: “c’arruobbano, ce fotton e ce offrono o cafè”.

Allora se sei ragazzo che fai? vai studiare fuori, provi a scappare, ma poi ti manca l’aria, ti alzi la notte di botto, accendi la musica in cerca di casa, ti affacci alla finestra ma vedi solo il palazzo di fronte, nessuno squarcio con apertura alare sul golfo, ti immagini il mare nella vasca da bagno o sul soffitto e ancora una volta ascolti lui, che sembra il portavoce del tuo cuore “Voglio o mare, e quatt’ a notte miez’ o pane!”.

La fine di questa camminata insieme lascia l’amaro in bocca, proprio come quando apro gli occhi e mi ricordo che il mare non c’è, è lontano.

Ecco un altro pezzo di Napoli che se ne va mentre la città si sveglia incredula e mutilata, e forse il pensiero che più turba è che potrebbe non restare più niente nella mia città, che non ci sia più nessuno da cui tornare.

Una generazione di grandi artisti si sta estinguendo e non c’è nessun ricambio generazionale. La nostra terra si sta inaridendo, è sempre più sterile di arte e talento. Sono riusciti ad avvelenarci il cuore, ad incattivirci a furia di calci in faccia.

Fino a ieri sera se mi avessero chiesto di nominare qualche artista vivente della mia città avrei detto: Pino Daniele, James Senese, Enzo Avitabile e Lina Sastri. Ma stammatin’ nun jesc’ Sole.

Finisce tutto qui?

Io voglio credere di no, un napoletano come te ci ha insegnato che la musica è speranza, quella musica che salva tanti ragazzi dalla strada, e tanti cuori soli dalla nostalgia.

Dicevi che “l’aria sadda cagnà”, e noi ancora ci crediamo che questa nottata possa passare, che abbiamo il dovere di proseguire quello che persone come te hanno iniziato.

Magari osando, gridando che si può ancora suonare, scrivere, cantare, che si può ancora restare a Napoli e vivere, crescere qui, credendo che questa città non debba restare afona, mutilata, umiliata.

Il segno del tuo passaggio sarà eternamente la tua arte, il nostro dovere sarà fare la differenza, avere pazienza e tenacia che tanto “per sognare poi qualcosa arriverà”…

Roma, 05.01.2015.

Teresa Florio

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Ho sempre pensato che nascere qui volesse dire avere due mamme. Una, quella naturale che ci partorisce e un’altra, rappresentata dalla nostra stessa città; Napoli. Io ho sempre creduto che alla morte di ogni Napoletano, Partenope pianga quel suo figlio; con una piccola increspatura del mare, con un po’ di pioggia, con uno scoglio che viene scheggiato dal vento.

Oggi, che è morto uno dei più grandi e talentuosi figli che Napoli ha partorito nell’ultimo secolo, la città l’ha omaggiato senza un singulto, senza il mare in tempesta, senza la pioggia battente. L’ha omaggiato mostrando tutti i suoi colori; il cielo imbrunendosi è passato dal celeste al cobalto al blu, il sole prima arancione e poi rosso è scomparso dietro l’orizzonte, abbassandosi ha donato alle nuvole contorni di viola, di lilla, di fucsia; il Vesuvio, a guardia del golfo ha fatto brillare il suo humus diventando poi nero, in lontananza le cime regalavano ancora qualche pennellata bianca, propria della neve di pieno inverno, mentre l’ombra lo copriva il tufo diventava di un’ ocra sempre più intenso, e mentre questo avveniva, sotto, immutabile e calmo, c’era il mare, quel mare che raccoglieva i colori dell’intorno trasformandosi in una tavola degna del miglior pittore, quel mare aveva mille colori. I colori di Napoli.

Così la città ha onorato l’ultimo andato tra i suoi figli migliori, quello che con la sua musica l’ha esportata nel mondo, difendendola a spada tratta , cantando forte questi mille colori, ma anche le mille paure di una città troppo spesso infangata e dimenticata. Per i Napoletani, invece, Pinuccio era una costante; un Napoletano sapeva, quasi inconsciamente, di tre cose appena arrivato all’età della ragione: del Mare, di Maradona e di Pino Daniele. Nessuno di noi sa bene di preciso, quando e chi ci ha detto chi era, quando abbiamo ascoltato per la prima volta un suo pezzo, sappiamo che per noi c’è sempre stato, lo conoscevamo, non ci saremmo sentiti in imbarazzo se si fosse seduto al tavolo del pranzo domenicale con noi a raccontarci storie, per tutti era uno zio, famoso e più o meno lontano, a cui non si riusciva a non volere bene, e tutti i Napoletani gli hanno voluto bene fino alla fine, per alcuni è stato l’ancora nei momenti brutti, per altri è stato lo sprint in quelli belli, ma soprattutto, con quelle canzoni, con quella musica, con quei testi è riuscito a darci le parole che non avevamo, che non trovavamo. Siamo riusciti a dire grazie, siamo riusciti a chiedere scusa, abbiamo potuto esprimere il nostro amore qualsiasi natura avesse, fosse quello per una figlia, per una moglie, per un genitore, per la nostra terra; Con quelle canzoni abbiamo conquistato donne ed uomini, e magari, qualche volta, li abbiamo accompagnati all’altare, abbiamo fatto avvicinare il mondo alla nostra città. Con quelle canzoni si è riusciti ad abbattere quel “muro invisibile tra Posillipo e Toledo” quello tra “figli di bucchina e figli di papà”, ecco, io sono convinto le sue canzoni siano stati anche un forte livellatore sociale, siano state cantate da chiunque, dagli innamorati nelle “alfette” al virgiliano fino agi scugnizzi coi motorini senza targa per le vie dei quartieri. Uguali. Figli della stessa Napoli e rappresentanti Uguali da Pino Daniele nelle sue canzoni.

Oggi Napoli si è svegliata a lutto, incredula e sgomentata, come se affacciandosi da San Martino non si vedesse più il Mare. Come se domani, da Capodimonte non trovassimo più il Vesuvio. Pino Daniele era un figlio di Napoli, e come tutti i suoi figli, ora possiamo respirarlo nelle strade, possiamo ascoltarlo nei riverberi del vento quando pettina le rocce entrando nel golfo, se ci concentriamo possiamo vederlo in quel cielo, tra gli sbuffi dorati al tramonto dove fa capolino la vetta del Vesuvio. Per quanto mi riguarda io adoro immaginarlo seduto lì, su quella nuvola che sempre passa sul mare entrando in città coprendo vicoli nascosti e castelli centenari. Lo immagino vicino al suo amico Massimo, che oggi lo avrà accolto a braccia aperta e gli avrà chiesto “Pinù, finalmente Ò saij comm fa o core quando s’è nammurat?”

Napoli, 05.01.2015.

Umberto Romano

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