La linea sottile tra giustizia legale e giustizia morale.

a cura di Giuseppe Venneri – 

Più del calcio, degli spaghetti e della pizza, l’italiano medio sembra ormai essere terribilmente ossessionato dai cosiddetti “processi-show”, ossia da quei casi di cronaca giudiziaria narrati dai mass-media sotto forma di fiction e traslati dalle naturali sedi dei Tribunali agli studi di Talk Show, appositamente adibiti. Tra i tanti episodi di questa sorta “soap opera”  proposti dagli organi di informazione nazionali, non può esser passato inosservato quello relativo all’ormai noto benzinaio vicentino Graziano Stacchio, indagato per eccesso colposo in legittima difesa aver causato la morte di un bandito con colpi di arma da fuoco, nel tentativo di sventare una rapina messa in atto dalla stessa vittima. Il caso, neanche a dirlo, ha scatenato immediatamente la reazione dell’opinione pubblica (e, ahimè, di molti esponenti politici di rilievo) che ha eletto il signor Stacchio ad eroe nazionale, invocandone la totale assoluzione ed un pubblico riconoscimento del coraggioso atto da parte delle Istituzioni.  Come nelle migliori fiction, appunto.

Tuttavia, un fattore fondamentale che questo processo di spettacolarizzazione della giustizia non tiene mai in considerazione è dato dal netto confine che separa la “giustizia morale” dalla “giustizia legale”: non tutto ciò che è moralmente condivisibile deve ritenersi penalmente non sanzionabile.  Confondere questi due piani, anzi, mette in posizione di grave pericolo i basilari princìpi di legalità che sono alla base dello Stato di diritto, basti pensare che gli ultimi esempi europei di ordinamenti giuridici che attribuivano rilevanza penale all’elemento della moralità sono costituiti dal codice penale nazista e dal codice penale sovietico, che rendevano punibili le condotte contrarie rispettivamente al “sano sentimento del popolo tedesco” e “all’ordine instaurato dagli operai e dai contadini”. Non proprio due esempi di civiltà.

Un ulteriore dato giuridico, inoltre, che gli stessi protagonisti di questo showbiz – forse troppo presi dalla loro opera di diffusione di allarmismo sociale – omettono di precisare è che le norme di legittima difesa, fondate sul nesso di proporzionalità tra difesa e offesa ex art. 52 c.p.,  devono essere coordinate, nel caso di specie, con le norme in materia di attenuanti sancite dall’art. 62 c.p. che prevedono la riduzione della pena in alcune ipotesi specifiche, tra cui “l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale” e  “l’aver agito in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto (c.d. provocazione)”.  E’ evidente, dunque, come non manchino nel nostro ordinamento strumenti giuridici che consentano (nei limiti del principio di legalità) di bilanciare l’esigenza di “tutelare” la meritevolezza sociale e morale di una condotta e l’altrettanto importante esigenza di garantire il principio della certezza della pena  (si pensi a quali conseguenze possa condurre la creazione di un orientamento giurisprudenziale scaturito da un’eventuale pronuncia di piena assoluzione di una simile condotta, sol perché moralmente apprezzabile).

Come si può facilmente notare, dunque, lo svolgimento di questi processi-spettacolo fa sì che il luogo della giustizia venga impropriamente trasferito dalle aule dei tribunali negli studi televisivi, in una sorta di processo parallelo – dove non ci sono regole e la bilancia della giustizia è guidata dal vox populi e non dalla iusta lex – che ricorda molto da vicino l’epoca dei tribunali popolari, di cui nessuno sente la mancanza. Non resta che augurarsi – oltre un maggior impegno dello Stato in materia di sicurezza e ordine pubblico – l’assunzione di un atteggiamento basato sul buon senso da parte mass-media e di taluni esponenti politici, affinché svolgano onorevolmente le funzioni ad essi affidati dalla nostra Costituzione, evitando l’indegna strumentalizzazione dei singoli casi di cronaca giudiziaria per aizzare le folle e diffondere terrore.

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