Affondato un Marino, se ne fa un altro?

A cura di Nicola Pigna

Le dimissioni di Marino sembrano concludere una delle più convulse pagine della storia amministrativa della Capitale. Forse delle sette piaghe d’Egitto, il Sindaco dimissionario, ha avuto la fortuna di evitarsi l’invasione delle cavallette, quanto alle altre sei, le ha beccate tutte, e con gli interessi. L’uomo non è cattivo, anzi è mite, si sforza addirittura di essere simpatico. Ha qualche difetto di popolarità, forse a causa di quell’aria da primo della classe, o per quei suoi occhiali rotondi, che ricordano altre epoche. Dire che è disonesto sarebbe ingiusto verso un uomo che, forse, non si è nemmeno reso conto di esser diventato il Sindaco della Capitale d’Italia. Marino, in fondo, è stato la classica pedina di partito: ha vinto le primarie grazie all’apparato, si è scontrato con un avversario così impresentabile che anche un neo-diciottenne avrebbe potuto battere, si è schiantato contro la complessità di governare i problemi, affrontandoli e non subendoli. Ha avuto la fortuna di essere l’uomo sbagliato al momento giusto. Quando la politica è litigiosa e fragile questi eventi possono verificarsi. Il Pd di Bersani era stato, tutto sommato, un gigante dai piedi d’argilla. Era un partito capace di dissipare un ingente vantaggio elettorale, incapace di perdere le elezioni, ma neanche capace di vincerle. Chi può dimenticare il “siamo arrivati primi” con il quale Bersani salutò la sconfitta? Era un Pd che si spaccò sull’elezione al Quirinale del proprio fondatore e primo presidente… Era la solita sinistra, “all’italiana”. Quando Marino è salito al Campidoglio era il 12 giugno 2013. A Palazzo Chigi c’era Enrico Letta e il Pd era guidato dal Segretario Guglielmo Epifani, che aveva sostituito Bersani e stava inconsapevolmente traghettando il partito verso Renzi. Dopo poco più di due anni e mezzo, un tempo esiguo, tutto sommato, il quadro politico italiano è diametralmente sovvertito. Renzi sta insegnando un decisionismo dinamico e diretto. Nemmeno Berlusconi, forse perché privo dell’autorevolezza morale necessaria, aveva mai potuto nemmeno sperare in un leaderismo tanto marcato. L’abisso che separa le condizioni politiche che hanno portato Marino alla guida della Giunta capitolina e la situazione odierna, è ancora più profondo se si considerano le condizioni politiche che hanno determinato le dimissioni. Non c’è stata una crisi consiliare, il tutto si è verificato nella medesima segreteria di partito in cui Marino era nato. Le ragioni di una tanto triste e tormentata fine sono almeno due: una carenza di legittimazione popolare e una drammatica fragilità politica. Quanto alla legittimazione popolare, bisogna ammettere che Marino non è stato amato dai romani, che pure lo avevano eletto. Ha assunto decisioni impopolari e spesso opinabili. Talvolta non si riusciva a distinguere dove finisse la propaganda e dove iniziasse l’azione concreta. È stato interprete della cultura dei proclami, asservita a quelle benpensanti idee radical chic, che tendevano a giustificare politiche inutili, e ritenute valide solo perché rispondenti ai canoni di un’estetica culturale, talvolta incapace finanche di vedere i problemi più macroscopici dei cittadini. È stato un sindaco in panciolle e vestaglia: al popolo che chiedeva pane, ha detto di mangiare brioches. Nobile nelle intenzioni, disastroso nelle attuazioni. Notevoli gli sforzi contro la corruzione e per il risanamento del bilancio ma carente è stato il senso di opportunità politica in tanti momenti drammatici. Quando si è scoperto che Buzzi aveva pagato anche la sua campagna elettorale, il Sindaco avrebbe dovuto trarne le conseguenze, dimettendosi, oppure chiarire, con una dovizia di particolari tale da continuare ad essere credibile. È stato illuminato nel pedonalizzare i Fori imperiali, ma miope nel non comprendere i disagi di mobilità causati prima della costruzione di nuove opere infrastrutturali per deflazionare il traffico. Quanto alla fragilità politica, non si può non ribadire quanto la Giunta Marino fosse figlia di condizioni politiche ormai tramontate. Era espressione di una sinistra visione di sinistra che difficilmente si sarebbe potuta conciliare con la vocazione pluralista ed interclassista del partito della Nazione voluto da Renzi. Il Pd oggi è un soggetto notevolmente trasformato. Tende ad essere inclusivo e non divisivo, come la vecchia sinistra. La speranza di Renzi è quella di creare un enorme contenitore che si ponga come l’unica alternativa credibile alla chiassosa e disorganica macchia da guerra penta-stellata. È difficile dire cosa questo Pd abbia di sinistra, ma sicuramente possiamo ammettere che vuole continuare ad avere una prospettiva di governo, ad ampio spettro, sia spaziale (con quasi tutte le regioni governate) sia temporale. In questo clima l’ultimo canto della vecchia sinistra DS era davvero troppo stonato ed ingombrante. Ben conscio di ciò, il premier-segretario, con un cinismo lucido e forse lungimirante, ha ritenuto di staccare la spina e porre fine ad un’agonia nociva per Roma e forse anche per un Pd che si riscopre senza un proprio sindaco e con una incognita: chissà se le dimissioni di Marino basteranno a riacquistare la credibilità perduta, così da poter vincere nuovamente a Roma?

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