La pena di morte agli occhi di un Dandy

A  cura di Clotilde Formica –

I never saw a man who looked with such a wistful eye upon that little tent of blue which prisoners call the sky, and at every drifting cloud that went with sails of silver by. I walked, with other souls in pain, Within another ring, And was wondering if the man had done A great or little thing, When a voice behind me whispered low, “That fellows got to swing.” […]. Some love too little, some too long, Some sell, and others buy; Some do the deed with many tears, And some without a sigh: For each man kills the thing he loves, Yet each man does not die.

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Mai ho visto un uomo guardare con sguardo tanto ansioso verso il minuscolo lembo d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo, verso ogni nuvola che andava alla deriva da vele d’argento sospinta. Io camminavo con altre anime in pena, entro un diverso raggio, e mi chiedevo se l’uomo avesse commesso una grave colpa, quando dietro di me una voce sussurrò: “Quel tipo sta per dondolare” […]. Alcuni amano troppo poco, altri troppo alcuni vendono, ed altri comprano; alcuni uccidono con molte lacrime, ed altri senza un sol singhiozzo; perché ogni uomo uccide ciò che ama, eppure nessun uomo merita di morire.

[O.Wilde-The ballad of Reading goal]

Wilde ci pone di fronte il ritratto di un brandello misero di realtà, non più lo scintillio di tempere fresche e il volto etereo di un giovane Narciso. Il caos mondano si riduce ad un cerchio di uomini spenti le cui anime evaporano verso uno sputo di cielo. Che effetto fa guardarlo quando sul tuo capo grava una condanna? Non c’è spazio per il sarcasmo, non più; ciò che un tempo era azzurro la morte lo tinge di un grigio che assorbe ogni speranza. “Quale può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i propri simili?” diceva Cesare Beccaria. Come può l’uomo violare il principio cardine della civiltà che è il rispetto della vita altrui appellandosi al diritto che della civiltà dovrebbe essere la massima espressione? Con quale superbia un uomo si sente giustificato nel decidere la fine dei giorni di un altro uomo? Le domande sono troppe e le risposte troppo poche o frutto di una sempre più incisiva spersonalizzazione degli individui: la società subdolamente ci anestetizza rendendoci simili al pirandelliano Serafino Gubbio (un semplice cineoperatore, schiavo di una realtà improntata al materialismo, il quale si immedesima nella propria macchina da presa diventando impermeabile a tutto ciò che lo circonda). Ci lasciamo scivolare addosso la quotidianità: l’attore uccide l’amante, la tigre lo sbrana e Serafino osserva e riprende, impassibile. “Tutti uccidono ciò che amano” ci dice Wilde, ognuno in un modo diverso, eppure nessuno merita di morire. Nella scena pirandelliana l’attore Aldo Nuti, anziché uccidere la tigre che ha di fronte (come previsto da copione), uccide l’attrice sua amante e la tigre lo sbrana. Aldo ha ucciso la persona che amava ed è stato a sua volta ucciso da una belva istintiva. Il diritto è l’espressione del progresso, della giustizia e della ragione, che si oppone, pertanto, all’istino ferino. La violenza e la morte, come reazioni ad un determinato comportamento altrui, dovrebbero essere, perciò, assimilabili ad una tigre, non ad un gruppo organizzato e civile di uomini. In conclusione, come scrisse Cesare Beccaria, “se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità”.

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