Letteratura in prognosi riservata

A cura di Angela Rizzica

Nobel che va, Nobel che viene: alcuni hanno parlato di un “passaggio di testimone” dato che, nella giornata di ieri, si è spento l’immenso drammaturgo ed attore Dario Fo ed al contempo ha vinto l’ambito premio dell’accademia svedese il genio musicale Bob Dylan.

Il merito del celeberrimo cantante è quello di “aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana” come si legge nella motivazione dell’annuncio stesso. Ecco, a mio modesto parere, ci sono almeno due concetti che in questo comunicato suonano dissonanti e non giustificabili: “grande canzone” e l’attributo “americana”, ma andiamo con ordine.
Il Nobel dato a Dylan riguarda la categoria dei letterati non quella del cantautorato; per quanto un testo di una canzone possa comunicarci profonde emozioni e risvegliarci da un possibile torpore emotivo, quelle parole sono scritte per essere necessariamente accompagnate dalla musica ed in questo premio, da quando è nato, dell’elemento musicale non si fa menzione. Prendiamo una delle opere più amate del cantante, “Blowin’ in the Wind” e proviamo a leggerne una strofa senza intonarla con le sue celebri note:

Quante volte un uomo deve guardare in alto


prima che possa vedere il cielo?


E quante orecchie deve avere un uomo


prima di poter sentire gli altri che piangono?


E quante morti ci vorranno prima che (l’uomo) riconosca


che troppi sono morti?


La risposta, amico mio, ascoltala nel vento,


la risposta ascoltala nel vento.

Parole belle, senza ombra di dubbio, e cariche di significato. Ma se non sapessimo di quale canzone si tratta e soprattutto chi l’ha scritta, reputeremmo questo pezzo idoneo a vincere un riconoscimento mondiale per la potenza del messaggio veicolato, per la leggiadria del verso, per la maestria della prosa, per l’unicità della composizione? Senza i necessari accordi che lo accompagnano, credo potremmo trovare almeno un centinaio di testi simili e non necessariamente firmati dalla penna di celebri geni. L’altro punto che ha destato il mio sospetto, è l’aggettivo “americana” accompagnato a “canzone”. Un riconoscimento ambito e di fama mondiale non può esser dato per meriti strettamente connessi alla dimensione nazionale. In poche parole, che Dylan abbia innovato la canzone della sua Nazione, a me non importa proprio nulla. Si può ribattere che le canzoni di Dylan erano ascoltate anche dai nostri genitori nel Bel Paese ma il problema rimane lo stesso: Bob veicolava messaggi che erano massimamente comprensibili solo dai suoi connazionali, attinenti ad eventi politici e sociali strettamente riconnessi all’America e tutto il resto del mondo ascoltava le sue canzoni perché erano bellissime, nulla di più. Un italiano non può interiorizzare queste parole fino in fondo, non può carpirne la segreta rabbia e la palese ribellione perché l’Italia non entra ufficialmente in un conflitto dalla Seconda Guerra Mondiale mentre è tristemente noto che gli Americani sono in guerra un giorno sì e l’altro pure. E’ quindi logico che questa canzone abbia per il popolo a stelle e strisce un determinato significato, perché si fa ambasciatrice di tutti quegli americani che la guerra, cercata dal proprio Governo, non la volevano. E’ una canzone di riscatto sociale creata per urlare “non siamo tutti guerrafondai!” e non credo che un Ungherese, un Bosniaco, uno Svizzero possano unirsi a questo coro. Davvero no.
Quello che mi fa più specie è che da ieri non vedo altro che italiani invasati per questa vittoria perché innovativa, che abbatte gli stereotipi e si beffa del sacro con la sua anima profana. Non lamentiamoci allora della morte del Liceo Classico, dei libri venduti anche a decine di euro da soggetti che scrittori non sono e che devono avere un ghostwriter dietro anche solo per scrivere il proprio nome e cognome, dei nostri connazionali che scrivono con le K, di “BUONGIORNISSIMO, KAFFEEEE???!!?”, di “petaloso”, dei neologismi anglofoni che troviamo sulla Treccani; rispondono tutti all’ottica della provocazione ad ogni costo. Dovremmo arrivare a capire che l’innovazione è ammirevole ma quando risulta coscienziosa e lungimirante, non quando appaga il morboso bisogno di dissacrare fine a se stesso, di veder Dio sanguinare perché “quei letterati con la puzza sotto al naso sono stati battuti da un semplice cantante”. Io questa la chiamo invidia generalizzata, eutanasia della meritocrazia, populismo, vittoria di quelli convinti che tutto debba essere accessibile a tutti senza restrizioni di alcun tipo; è l’apologia del sogno americano per cui chiunque può diventare chi vuole, anche senza sforzo. In un momento in cui l’editoria va a rotoli perché la gente non legge più (ed, ahimè, si vede), dare un premio storico come il Nobel per la letteratura ad un cantante è giustificare questo dato di fatto ed anzi sublimarlo.
Insomma per me, da ieri, la letteratura come la intendo io vecchia bigotta borghese, non è morta ma di sicuro è in prognosi riservata.

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