Due anni dopo

A cura di Piervincenzo Lapenna

La prima volta che ho smesso di fare politica avevo diciannove anni. Avevo da poco iniziato l’Università ed ero già stanco. Ero stanco di perdere amicizie, di trascurare le persone importanti, di essere sempre -nel bene e nel male- sulla bocca di tutti. Avevo deciso, dopo sei intensi anni di rappresentanza (due da Sindaco dei Ragazzi della mia Città e quattro da Rappresentante degli Studenti del mio liceo), di dedicarmi ad altro. Volevo diventare il figlio perfetto ed il fidanzato ideale. É così che il mio primo anno in LUISS l’ho trascorso per metà sui libri e per l’altra metà in viaggio su di un pullman. Perennemente sospeso fra Roma e Potenza. Senza sentirmi fino in fondo né lucano, né capitolino.

 

Il secondo anno di università, invece, l’ho passato provando a superare gli strascichi di una separazione dolorosa. Ho perseverato nel tentativo di essere il figlio che i miei genitori avevano sempre desiderato, ma avevo la testa da un’altra parte. Non ho frequentato l’Ateneo e solo grazie al sostegno delle persone meravigliose che sono rimaste al mio fianco ho potuto superare quel periodo difficile. La vita è fatta così, non puoi fingere di essere quello che non sei.

 

La politica per me è sempre stata una malattia. Da piccolo, quando i miei compagni di classe parlavano di calcio, io spesso non sapevo cosa rispondere. Mi piaceva parlare di ideali: di libertà, di democrazia, di giustizia. Credo che i miei genitori si siano accorti che la cosa stava assumendo dimensioni preoccupanti quando in seconda media chiesi loro -come regalo per le pagelle del primo quadrimestre- di far realizzare due magliette, una bianca e l’altra nera, raffiguranti il volto di Alcide De Gasperi. Quelle magliette sarebbero da lì a poco diventate il mio capo d’abbigliamento prediletto per andare a scuola.

 

Ad essere onesto per la verità, prima di iniziare l’Università, a smettere di fare politica non c’avevo mai nemmeno provato seriamente. L’idea più volte mi era balenata in testa, ma in un ambiente chiuso come quello della piccola provincia italiana, cambiare è praticamente impossibile. Tu sei e rimarrai sempre la persona che gli altri pensano tu sia, ed io a Potenza per tutti ero “il Baby-Sindaco”.

 

Le principali perplessità -che tutt’oggi ciclicamente tornano a perseguitarmi- le ho maturate nonostante abbia sempre amato quello che facevo.

Io adoro stare fra le persone. Impegnarmi per gli altri è la cosa che mi fa stare bene e mi fa sentire vivo. Della politica, tuttavia, non mi sono mai piaciute né le divisioni, né le sovrastrutture. Della politica non mi piace la noncuranza con la quale si cambiano frequentazioni. Non mi piace il fatto che spesso, anche all’interno della stessa fazione, i legami si fondino sulla reciproca convenienza. Questa lezione l’ho imparata a mie spese -prima solo in teoria- quando a quattordici anni in sezione mi spiegarono che dovevamo chiamarci “compagni”, perché il compagno e l’amico sono due cose diverse. Poi anche nella pratica, quando appena un anno più tardi la mia esperienza socialista giunse al capolinea. Commisi, infatti, l’errore di invitare fra i relatori di un’assemblea studentesca sulla sicurezza negli ambienti di lavoro -oltre ad un sindacalista della Cgil ed a un ingegnere- anche “il padrone” (ovvero un rappresentante di Confindustria Basilicata). La cosa non mi fu mai perdonata.

 

A tutte le persone che ho incontrato nel mio percorso e che ho perso. A tutti coloro con i quali prima ho condiviso battaglie e contro i quali subito dopo ne ho combattute, io chiedo scusa. È stata colpa nostra ma anche delle circostanze. Perché la politica è così, ti porta il secondo prima a condividere tutto e quello successivo a scontrarti anche su questioni effimere. La politica fa diventare il singolo massa, lo spinge a fare ragionamenti di gruppo, gli fa perdere lucidità e lo incattivisce. È per questo che oggi, qui, chiedo scusa a tutti coloro che non mi hanno mai voluto perdonare. Chiedo scusa, poi, anche a tutti quelli che io stesso non ho avuto il coraggio di perdonare. Qualunque cosa sia successa fra noi, probabilmente, è successa anche perché la nostra capacità di ragionamento in quel momento era offuscata.

 

Il mio terzo anno di Università -o meglio di astinenza- è stato un anno particolare. Mi sono riscoperto matricola, solo due anni più tardi. Dopo tanto ho iniziato a vivere Roma, la città che non avevo avuto né il tempo, né la voglia di conoscere. Ho ripreso a frequentare le lezioni, ho incominciato a giocare a rugby in quella meravigliosa famiglia che per me è stata l’ASD LUISS, ma soprattutto ho iniziato a scrivere per Iuris-Prudentes ed a partecipare alle attività della redazione.

A giugno però sono ripiombato nel baratro. A sconvolgere il mio equilibrio precario è bastata una telefonata. “Vuoi candidarti come consigliere comunale della tua Città?”. La proposta era ghiotta. Da un lato sapevo di non essermi impegnato negli ultimi anni e di non aver lavorato per arrivare ad una candidatura. Dall’altro, però, la malattia che mi porto dietro aveva già ripreso a manifestarsi con tutti i suoi sintomi. Dopo un mese di travaglio decisi di declinare. Non ero pronto, non me la sentivo. La cosa che più mi spaventava era quella di dover nuovamente affrontare il giudizio dei miei concittadini. Mi ero lentamente disabituato a tutto quello che comporta fare attività politica e avevo ritrovato una certa serenità. Mettersi in gioco, dopo una lunga sosta, non è affatto semplice.

Trascorsi l’estate successiva in preda al rimorso. Se ci avessi provato chissà cosa sarebbe successo, chissà dove sarei ora. Ero convinto, però, di aver superato quella fase della mia vita. Ero convinto di essermi riuscito a mettere la politica alle spalle.

La paura di espormi, il timore del giudizio altrui, il doversi sempre moderare, l’auto-controllo, il non poter dire quello che si pensa per evitare di urtare la sensibilità di coloro che ti circondano. Tutti questi fattori, sommati, pesavano e pesano sulla mia schiena come macigni. Perché se c’è una cosa della politica che ti distrugge, quelle sono le accuse e gli attacchi. Nessuno è veramente capace di farsi scivolare tutto addosso, ci sono frasi e gesti che ti feriscono e che fanno male, ma che sai che devi sopportare, perché purtroppo fanno parte del gioco.

 

Le vicende del mio quarto anno di università ai più, invece, sono cosa nota. La candidatura al consiglio d’amministrazione della LUISS è stata una sorta di fulmine a ciel sereno. Non nascondo di averci lavorato (questo è ovvio). Tuttavia la cosa stupefacente è stata che l’opportunità si è concretamente palesata solo quando sia io, sia tutti quelli che assieme a me si erano spesi per raggiungere quell’obiettivo, avevamo ormai perso ogni speranza.

Marzo e Aprile 2015 sono stati due mesi incredibili, mesi in cui mi è parso di vivere in un sogno. Non lo dimenticherò mai, come non smetterò mai di essere riconoscente ai compagni di viaggio che mi hanno permesso di trasformare quel sogno in realtà. Ovunque voi siate, anche se le nostre strade si sono divise, io vi sarò debitore.

 

Le campagne elettorali sono una di quelle cose che ti fanno amare la politica. Sono un momento di aggregazione straordinario in cui si fortificano legami, in cui si incontrano persone nuove, in cui un gruppo scopre una dimensione di condivisione del tutto nuova. Lavorare alacremente per raggiungere uno scopo. Riconoscersi in un candidato ed in una proposta. Spendersi con tutto se stessi per offrire il proprio contributo alla causa comune. Sono emozioni queste che consiglio a tutti, almeno una volta, di provare.

Le campagne elettorali, probabilmente, sono anche quello che fino ad ora mi ha maggiormente distolto dall’intento di smettere. Perché fare politica è un po’ come fumare. Puoi passare anni senza toccare una sigaretta ma basta cedere alla tentazione una volta e sei punto e accapo (o almeno per me così è sempre stato).

 

Dei due anni da Rappresentante degli Studenti di questo Ateneo non spetta a me dare un giudizio. Quello è compito vostro e di ciascuno di voi soltanto.

Quello che mi compete, invece, è mostrarvi dove a parer mio ho sbagliato e quali sono gli errori che maggiormente mi rimprovero.

È necessaria però una premessa. Quella del rappresentante degli Studenti non è una carica che possiede dei poteri veri e propri. Il “rappresentare”, infatti, è uno di quei verbi che ogni interprete deve provare a coniugare (come meglio può) del tempo e del significato che ritiene essere più opportuno.

Da un punto di vista prettamente metodologico il mio modo di fare il rappresentante è stato da un lato quello di mettermi a disposizione dell’Università, valorizzando le caratteristiche di intermediazione che sono proprie del ruolo che ho ricoperto; dall’altro lato cercando di essere a disposizione di ogni studente ogni volta che avesse avuto bisogno del mio aiuto. La cosa mi è costata molti sacrifici. In termini umani, ad esempio, mi ha costretto e mi costringe a trascurare le persone veramente importanti. Questa è un’altra delle cose che non mi piace più della politica. Non ci sono orari o momenti liberi ed a pagarne il prezzo sono le persone che ami.

Tuttavia l’aver agito in questa maniera mi ha dato la possibilità di diventare un interlocutore credibile per la LUISS, aumentando in maniera considerevole la mia capacità negoziale.

Rendersi indispensabili è la chiave di ogni mestiere, anche di quello del rappresentante. Rendermi indispensabile è quello che ho provato a fare io in questi due anni. Perché se coloro che si interfacciano con te non possono farne a meno, allora dovranno ascoltare le tue idee.

 

La cosa che, invece, maggiormente mi rimprovero è stata quella di non essere riuscito nel proposito di costruire una casa comune per gli studenti di giurisprudenza. Credo che questo obiettivo meritasse uno sforzo politico maggiore da parte mia. L’associazione delle associazioni, un luogo che fosse di vero confronto per gli “abitanti” di via Parenzo, un’area di condivisione dove coloro che avessero avuto voglia di impegnarsi avrebbero potuto farlo per qualcosa di più grande di un’aricciata.

Non ci sono riuscito, e la colpa è solo mia. Non so se le difficoltà incontrate siano dipese anche dall’indole stessa di noi giuristi, ma in facoltà esiste un marcato senso di individualismo che -se per alcuni versi è nobile- per altri versi non solo ostacola il cambiamento ma di frequente vi si oppone, favorendo così il perpetuarsi della conservazione.

Su ognuno di voi ricade il compito di lavorare per individuare percorsi di condivisione, comunque vadano queste elezioni non dovrete mai dimenticare che le cose che ci uniscono sono molte più di quelle che ci dividono.

 

Se quello dell’associazione unica di giurisprudenza è un rimpianto, qualcosa cioè che ho provato a fare ma nella quale ho fallito, di questi due anni porterò con me anche un rimorso. C’è una persona in particolare a cui devo chiedere scusa e si chiama Francesco Acri.

Francesco è un ragazzo d’oro. Mi rammarico solo di averlo conosciuto troppo tardi. Quando si è presentata l’occasione di farlo -una volta compreso che non c’erano le condizioni per arrivare ad una nostra propria candidatura per il Consiglio Nazionale Superiore dell’Università- avremmo dovuto sostenerlo, ma così non è stato. Francesco ha scontato colpe non sue e di questo sono sinceramente dispiaciuto. So che queste scuse non bastano e non basteranno a ripagarlo dei suoi sforzi, ma credo sia doveroso da parte di chi è impegnato personalmente in ruoli di rappresentanza ammettere i propri errori, ed in quell’occasione io ne ho commesso uno enorme.

La politica alle volte ti fa perdere di lucidità e ti fa diventare quello che non sei. Ti offusca la mente, ti porta a ragionare in maniera corporativistica ed, alla fine, a farne le spese sono quasi sempre persone che non lo meriterebbero. A Francesco prima d’ora non ho avuto mai il coraggio di fare le mie scuse, nemmeno in privato. Spero che quelle che qui gli faccio possano sopperire almeno in parte a questa mia ulteriore mancanza.

 

Per il resto, a pochi giorni dalla mia laurea, mi avvio alla conclusione del mandato consapevole di aver dato tutto quello che potevo per gli Studenti di questa Università.

È anche a voi, colleghi miei, che io chiedo scusa. Chiedo scusa per i fallimenti, per le conversazioni che non sono riuscito a visualizzare su messanger, per le volte in cui non ho potuto aiutarvi nella risoluzione dei vostri problemi. Ognuno di noi ha dei difetti. Ognuno di noi ha dei limiti. Credo che in questo periodo così breve ed intenso che ho trascorso al vostro servizio anche i miei siano emersi in tutta la loro complessità. Nel giudicare il mio operato vi chiedo di tenere presente tutto questo, ma anche di comprendermi. Perché al non fare ed al non sbagliare ho preferito il fare, accettando molte volte anche il rischio di commettere degli errori.

 

Oggi, quando mancano appena ventiquattro giorni al fatidico pomeriggio in cui varcherò la soglia della Sala Colonne per discutere la mia tesi di laurea, a prevalere è la serenità. So come sono fatto e sono abbastanza sicuro che non tornerò a darvi fastidio. È giusto lasciare che il corso del tempo prosegua ed ostinarsi a mantenere artificialmente in vita cicli che hanno una scadenza naturale credo sia un errore imperdonabile. Nel frattempo guarderò con curiosità all’11 Aprile per scoprire chi prenderà il mio posto. Conosco tutti i candidati e sono sicuro che chiunque vincerà saprà dare il suo contributo nel miglioramento di questo Ateneo. Allo stesso tempo, però, non posso nascondere la mia simpatia e le speranze che ripongo in quel meraviglioso progetto chiamato Spazio Università.

“Spazio” è la prima esperienza di condivisione alla pari che sia stata proposta in LUISS ed -in tutta onestà- credo che il nostro Ateneo abbia un disperato bisogno di un contenitore attraverso il quale dare agli studenti la possibilità di esprimere tutto il loro potenziale. La vera sfida quindi non inizia oggi, ma incomincerà non appena le urne si saranno chiuse. Sarà in quel momento che emergeranno le vere difficoltà e sarà in quel momento che dovrete essere bravi a non abbandonare la strada maestra.

 

Grazie di tutto amici miei, perché rappresentarvi è stato un onore.

Spero di rivedervi in altre vesti ed in occasioni nuove. Forse da Ginky, forse a studio. Chi può saperlo questo. Anche perché io, dal 27, smetto!

 

Ad maiora semper.

 

 

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