Quando la concorrenza fa paura

A cura di Lorenzo Scala

Il mese scorso, gruppi di tassisti della Capitale hanno protestato contro il Governo che tramite il decreto Milleproroghe aveva rinviato la discussione della regolamentazione di servizi come Uber, che attuerebbero concorrenza sleale nei loro confronti. Dopo giorni di tensioni, accompagnate anche da intimidazioni ed aggressioni in una sorta di luddismo contemporaneo, il Governo ha accettato di negoziare con loro, trovando un’intesa con il ministro dei trasporti Delrio al termine di una lunga mediazione. Tale situazione ha però dimostrato chiaramente come ancora una volta, in Italia, se qualcosa di innovativo funziona bene, debba allora essere fortemente regolamentato, se non addirittura abolito, sottostando alla volontà di quelle lobby che i gruppi politici di orientamento populista, a partire dal Movimento 5 Stelle, vogliono amicarsi allo scopo di allargare il proprio bacino elettorale, nella più tipica tradizione statalista italiana. Su questa falsa riga, quello che possiamo notare è che i problemi che ci troviamo ad affrontare siano due: da un lato il modo stesso in cui è organizzato il settore dei trasporti pubblici non di linea in Italia, tra cui i taxi, e dall’altro la paura per l’apertura del mercato verso la concorrenza e la competizione. Ma andiamo per ordine.

Come funzionano i taxi in Italia? Essenzialmente male. Oltre ad essere uno dei settori con più «nero», risulta difficile anche poter esercitare la professione. Per diventare tassisti bisogna infatti avere un particolare tipo di patente, superare determinati esami e ovviamente iscriversi ad un albo. Oltre a ciò, è necessario avere anche una licenza, distribuita e concessa gratuitamente dai comuni attraverso rarissimi concorsi pubblici. È per questo che il numero delle licenze risulta essere fisso da alcuni decenni nelle grandi città, e gli unici modi per ottenerne una sono quindi o quello di riceverla per via ereditaria, o acquistarla sul mercato da un privato, chiaramente a prezzi esorbitanti (anche centinaia di migliaia di euro), essendo la domanda molto più elevata rispetto all’offerta. Sono peraltro i tassisti stessi ad influenzare la scelta delle licenze da distribuire, riuscendo in questo modo a difendere al meglio gli interessi della categoria.

A funzionare male però è anche il modo in cui il servizio opera, risultando molto frammentato e scomodo, e qui ci colleghiamo al secondo problema. Nel corso degli anni si sono sviluppati, infatti, nuovi servizi o nuovi strumenti di prenotazione che però puntualmente sono stati boicottati dai tassisti stessi. Sono anni che in Italia si cerca di liberalizzare tale mercato, ma nessun Governo, vuoi per pavidità, dabbenaggine o timore di perdere voti, è riuscito a non accasciarsi dinanzi alle richieste dei manifestanti. E la ragione sta chiaramente nella disperazione dei tassisti che per ottenere la licenza si sono fortemente indebitati. Ma il problema è ben più profondo, sta nell’incapacità degli italiani di adattarsi ai tempi che cambiano e ai nuovi servizi che tendono a soppiantare alcune attività, permettendo però, allo stesso tempo, nuove opportunità di lavoro e di crescita.

Ci stiamo dirigendo verso la Quarta Rivoluzione Industriale e quello dei taxi non è il primo e sicuramente non sarà l’ultimo esempio di come la tecnologia cambierà il mondo del lavoro. Nel prossimo futuro i notai non esisteranno più, i chirurghi opereranno via Internet, la spesa si farà da casa e le macchine si guideranno da sole, e mentre negli altri Paesi del mondo ci saranno i robot, in Italia le cose si faranno ancora in maniera «tradizionale», eufemismo per dire «arretrata». In molti hanno proposto di rimborsare i tassisti delle loro spese; ma se un individuo che investe 150mila euro in un’idea imprenditoriale senza aver successo non dovrebbe essere, giustamente, salvato dallo Stato, perché il tassista, anche lui imprenditore che ha speso i propri risparmi in un settore con forti cambiamenti, deve essere invece risarcito per il proprio investimento sbagliato? A differenza di quello che sembra, il mercato non è selvaggio, ma, come la storia ci insegna, è un sistema di regole preciso e democratico, fondato sulle preferenze dei consumatori. L’unica cosa che sembra essere selvaggia in questo momento è la scelta di bloccare il futuro nel nome della tutela di pochi e dei sostenitori di questo corporativismo economico, difeso attraverso manifestazioni violente, bombe carta e scioperi incontrollati.

L’Italia è quel Paese in cui, se te hai successo ed io no, me la prendo con la tua bravura, e chiedo a qualcuno (lo Stato) di sussidiare la mia incompetenza. A mancare è una cultura imprenditoriale, liberale, antiprotezionista, pro-global, nonché quelle regole e quella politica che sarebbero di vitale importanza per far concorrere il nostro Paese ad armi pari con gli altri competitors occidentali. Perché essere pro-mercato, in Italia, è sempre un peccato.

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