The big Short of May

A cura di Matteo Politano
Fino a qualche giorno fa gli occhi del mondo erano puntati sul ballottaggio presidenziale francese, già da allora destinato ad entrare nella storia della politica europea. Ma il prossimo 8 giugno gli occhi di tutti saranno incentrati su un’altra tornata elettorale, quella di un Paese che in questi anni ha fatto parlare quasi quotidianamente di sé: il Regno Unito.
Ironicamente, tra le prime nazioni a far parte dell’Europa, ma anche l’Unica ad essere uscita dall’Unione. E, da sempre, la meno europea tra tutte le europee. Il Regno è uscito dall’Unione, il suo Primo Ministro è cambiato, come la leadership dello stesso partito di Governo (passata da David Cameron a Theresa May), ma la sua economia continua a crescere.
E lo scorso 18 aprile, dopo quasi un anno dalla Brexit e dall’insediamento della nuova inquilina di Downing Street, la donna oggi Premier e guida dei Conservatori Inglesi, comunica la sua richiesta al Parlamento: elezioni anticipate. Un annuncio quasi clamoroso per quanto inaspettato: infatti la scadenza prevista per la legislatura era per la primavera del 2020. Non solo: negli ultimi mesi May aveva affermato più volte la sua intenzione di non indire elezioni anticipate. Il suo stesso addetto stampa lo ribadì, verso la fine di Marzo.
Eppure, ormai è cosa fatta: le opposizioni, il Partito Laburista e quello Liberal-Democratico su tutti, hanno votato a favore (in UK il Premier ha il potere di richiedere elezioni anticipate ma, per evitare colpi di mano, magari dovuti a dei sondaggi favorevoli o ad una situazione di vantaggio, occorre l’approvazione di due terzi del Parlamento).
Le motivazioni sono essenzialmente due, e, per certi versi, una è conseguenza dell’altra: in primis, i sondaggi sulle intenzioni di voto danno il Partito Conservatore al 48%, una quota ben più alta dell’attuale maggioranza parlamentare, una forte rilegittimazione dopo la pesante sconfitta del referendum. Ma non solo. È la stessa attuale maggioranza la preoccupazione maggiore: i Tories infatti governano da soli, ma con solo 15 seggi di vantaggio, una maggioranza forse troppo labile per garantire la serenità e la forte unità d’azione necessarie per sempre più delicati negoziati con l’UE.     
Oltre la metà dei deputati in carica si è schierata a favore del Remain nel referendum dello scorso giugno, mentre molti dei restanti potrebbero opporsi a dei futuri, magari obbligati, compromessi da realizzare.
La Premier, nell’annunciare la sua scelta, si è scagliata contro i suoi avversari, colpevoli di aver ostacolato la volontà e la scelta del popolo: i Laburisti, perché avrebbero ostacolato le trattative; i Lib-Dem, perché promotori di un nuovo referendum ed in prima linea per il Remain; i membri della Camera dei Lord (non eletti), perché hanno annunciato un ostruzionismo forte su ogni punto, e lo Scottish National Party, perché fa leva su un nuovo referendum per l’indipendenza, dopo i risultati contrastanti del Brexit (in tutta la Scozia ha vinto il Remain).  
Sulla questione, nei giorni successivi, i principali giornali inglesi si sono scatenati da ambo le parti.
The Guardian, storico quotidiano liberal e di sinistra, ha criticato aspramente la scelta di May, definendola ingiustificata, e considerando la questione delle divisioni parlamentari solo una scusante per poter ottenere una schiacciante vittoria elettorale, in particolare su Jeremy Corbyn, leader del Labour Party, dato al 24% nei sondaggi: uno stacco decisamente troppo ampio per poter essere recuperato in due mesi.
E per quanto lo stesso Corbyn abbia accettato la sfida di buon grado, come un’occasione per poter rimettere in discussione l’attuale sistema economico inglese (“governato dai ricchi e solo per i ricchi”), alcuni hanno persino parlato di azione pericolosamente antidemocratica, paragonando la mossa della May ad un colpo di Stato.
Dall’altra parte, il Telegraph, principale quotidiano conservatore, ha difeso la sua scelta, definita come coraggiosa, nonché come una grande opportunità, sia per scongiurare una possibile coalizione progressista Lab/Lib-Dem/SNP, sia per poter dare agli inglesi una scelta sulle politiche economiche da attuare, peraltro nel miglior momento possibile, visto il positivo periodo di crescita.
Se da una parte la fantomatica coalizione sembra ormai improbabile (e ciò potrebbe portare ad una debole opposizione), dall’altra la scommessa di May potrebbe ritorcersi contro di lei: infatti, il sondaggio del 30 aprile riportava un distacco molto inferiore rispetto alle settimane precedenti con i Tories al 44%, i Laburisti al 31%, i Libdem all’11%, e l’UKIP (ormai in crollo verticale dopo la vittoria referendaria e le dimissioni di Nigel Farage) al 6%. Una maggioranza in ogni caso apparentemente certa, ma che potrebbe essere ridimensionata entro l’8 giugno.
La partita è molto definita, tuttavia sembra riaprirsi.
D’altronde, come Trump e Brexit insegnano, alle urne niente è davvero impossibile. 

 

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