Sull’orlo dell’abisso

A cura di Andrea Josè Mussino

Domenica 30 luglio i cittadini venezuelani sono stati chiamati a votare per la formazione di un’Assemblea Costituente, convocata dal Presidente Nicolas Maduro. La giornata del voto di domenica, caratterizzata da un clima di violenza senza precedenti che ha portato alla morte di 15 persone negli scontri tra la Guardia Nacional ed i manifestanti in diverse città del Venezuela, rappresenta il punto di arrivo di una crisi politica ed istituzionale iniziata quattro mesi fa con la definitiva svolta autoritaria del governo di Maduro e che lascia dietro di sé 125 morti. Quattro mesi difficilissimi di violenza e sangue, durante i quali la comunità internazionale si è trovata a dover gestire impreparata (forse per esser stata per troppo tempo, troppo prudente?), la fine dello stato di diritto in un Paese fondamentale per gli equilibri dell’America Latina.
Come si è potuti arrivare a questo punto? La crisi è iniziata il 28 marzo quando, con una mossa a sorpresa, il Tribunal Supremo de Justicia, massimo organo giurisdizionale del Venezuela, dichiarò illegittima l’Assemblea Nazionale, il Parlamento venezuelano, decretandone contestualmente lo scioglimento ed il conferimento dei poteri legislativi al Presidente. Nell’Assemblea Nazionale eletta nelle elezioni politiche del dicembre 2015 ha la maggioranza l’opposizione al governo chavista, formata dalle due coalizioni di Voluntad Popular e di Mesa de la Unidad Democratica. La decisione del Tribunale (i cui membri non a caso sono nominati dal governo) è stata l’ultima mossa del chavismo per cercare di limitare il peso dei partiti d’opposizione, cresciuto in questi anni di crisi economica durante gli ultimi anni della presidenza Chavez e tutto il periodo della presidenza Maduro. Tuttavia, mentre gli altri provvedimenti presi dall’inizio della legislatura nel dicembre 2015 che andavano a limitare i poteri legislativi dell’Assemblea Nazionale erano in qualche modo riconducibili ad un alveo di costituzionalità, seppur stiracchiata (come la dichiarazione dello stato d’emergenza ai sensi dell’articolo 338 della Costituzione che ha consentito a Maduro di governare per decreto per tutto il 2016), la decisione del Tribunal Supremo è apparsa fin da subito arbitraria per la grave ingerenza del potere giudiziario nell’indipendenza delle prerogative del Parlamento, alla base di qualsiasi democrazia. E’ stato questo evento a far iniziare le manifestazioni e gli scioperi da parte dei partiti d’opposizione che vanno avanti in pratica ogni giorno dall’inizio di aprile per chiedere le dimissioni di Maduro con la convocazione di nuove elezioni presidenziali. Dopo qualche giorno dall’inizio delle proteste, Maduro decise di annullare la sentenza del tribunale; ormai però, una prima breccia nel muro della stabilità del regime era stata aperta, e soprattutto non era più possibile nascondere la sua vera natura autoritaria. Nel corso di questi mesi di protesta, la maschera sarebbe definitivamente caduta, con una brutale repressione delle proteste di piazza (la cui violenza è stata continuamente riportata sui social network) e soprattutto con l’arresto arbitrario dei manifestanti e la denuncia di torture e trattamenti inumani e degradanti sui detenuti politici. Forse l’immagine più forte per riassumere questi mesi di protesta è quella di un violinista che manifesta pacificamente suonando il suo strumento davanti al muro umano di soldati armati. Il 1° maggio arrivò una svolta inaspettata. Durante un comizio per la festa dei lavoratori, Maduro annuncia la convocazione con un decreto presidenziale di un’Assemblea Costituente per riscrivere la Costituzione. Fu una doccia fredda per l’opposizione, ma anche per gli stessi chavisti, dato che la Costituzione in vigore è quella voluta da Hugo Chavez nel 1999. Non sono solo le peculiari modalità di convocazione dell’Assemblea Costituente ad aver fatto drizzare i capelli, ma anche la sua composizione e le sue finalità: essa risulta composta da 545 membri, 364 dei quali eletti nelle votazioni del 30 luglio, 8 scelti tra i rappresentanti delle comunità indigene e 173 a rappresentare diversi settori della società venezuelana (dai contadini ai pensionati, passando per i pescatori, i camionisti, gli studenti, etc.) e deve, secondo il Presidente, “garantire la pace al Paese, mediante la costruzione di un nuovo ordine economico post petrolifero (sic)”. La vera intenzione di Maduro è rafforzare il proprio potere, eliminando qualsiasi spazio di libertà dalla nuova Costituzione con provvedimenti che chiaramente s’ispirano al regime comunista cubano come il divieto di espatrio dei cittadini o l’abolizione della proprietà privata. Colpisce come la convocazione di questa Assemblea Costituente sia avvenuta senza tenere in considerazione la minima soluzione di continuità con l’ordine costituzionale ancora vigente, soprattutto per quanto riguarda le prossime scadenze elettorali (amministrative a dicembre 2017 e presidenziali ad ottobre 2018) a cui non si fa minimamente cenno.
La svolta autoritaria di Nicolas Maduro non ha trovato consenso unanime tra i chavisti, molti dei quali hanno espresso perplessità, se non addirittura aperta condanna, come la Procuratrice della Repubblica Luisa Ortega Diaz che ha pubblicamente denunciato l’antidemocraticità dapprima della sentenza del Tribunal Supremo de Justicia e poi della convocazione dell’Assemblea Nazionale. La maggior parte dei leaders chavisti rimane fedele a Maduro più che altro per convenienza personale, per mantenere i privilegi del potere; nel frattempo, ciascuno di essi fa pesare i propri rapporti e le proprie influenze nei confronti dell’esercito il cui appoggio garantisce ancora la sopravvivenza del regime. Il regime chavista, nonostante i colpi ricevuti, prova ancora a mantenere e gestire il potere, alimentando la propria resistenza e sopravvivenza con una propaganda ormai ripetitiva ed obsoleta, accusando l’opposizione governativa, i media stranieri ed i Paesi che hanno preso posizione a favore dei manifestanti di essere “imperialisti” e di voler minare la stabilità e la libertà del Venezuela.
A livello internazionale, il Venezuela è ormai completamente isolato. I numerosi tentativi di mediazione tra il governo e l’opposizione per cercare una soluzione alla crisi del Paese condotti da vari soggetti internazionali sono tutti falliti. Tra questi il più significativo è stato senz’altro quello condotto dalla Santa Sede ed articolato in quattro punti che prevedevano la liberazione di tutti i detenuti politici e la convocazione di elezioni libere secondo un calendario stabilito. La repressione delle proteste ha portato ad una forte reazione di condanna da parte della maggior parte dei Paesi latinoamericani, che si è espressa in numerose risoluzioni dell’OEA, l’Organizzazione degli Stati Americani, organizzazione regionale che riunisce gli Stati del continente. Gli unici Paesi a non aver condannato il governo venezuelano per la sua svolta autoritaria sono stati Cuba, il Nicaragua, l’Ecuador e la Bolivia. Sono tutti Paesi che sono stati sempre alleati del Venezuela chavista e che ora si trovano per motivi più che altro ideologici a dover compiere una difesa d’ufficio dell’amico ormai diventato scomodo.
Il voto del 30 luglio sulla Costituente, anziché porre fine alla crisi secondo le intenzioni di chi l’ha convocato, ha aperto una fase piena d’incognite sul futuro del Paese. Nonostante il governo abbia reso pubblici con entusiasmo i dati dell’affluenza alle urne, le foto pubblicate dai cittadini sui social networks di seggi deserti ed i sondaggi pubblicati nelle ultime settimane, nei quali si è rilevato che oltre l’80% dei venezuelani è contrario al progetto dell’Assemblea Costituente mostrano quanto sia diventata profonda la distanza tra i cittadini ed il governo che dovrebbe rappresentarli. Fra pochi giorni, con l’insediamento dell’Assemblea Costituente, il Venezuela si ritroverà con due assemblee legislative che si considerano entrambe legittime. La repressione del regime non accenna a diminuire, e nella notte tra il 31 luglio ed il 1° agosto due leaders politici dell’opposizione a cui erano stati concessi gli arresti domiciliari, Leopoldo Lopez e Antonio Ledesma, sono stati nuovamente arrestati dalle forze di polizia e condotti in un luogo per ora ignoto. La comunità internazionale nella sua maggioranza ha disconosciuto il voto per l’Assemblea Costituente e l’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di sanzioni contro il Venezuela. Il governo Trump ha congelato i beni di 13 membri del governo venezuelano, nonché i conti intestati allo stesso Nicolas Maduro. Nelle cancellerie internazionali si sussurrano due parole che mettono i brividi, per ciò che comporterebbero per la popolazione venezuelana: “guerra civile” e “Siria”. Se chiaramente è difficile prevedere come e quando la crisi sarà risolta, rimane l’amarezza nel vedere come un Paese che appena vent’anni fa si trovava all’avanguardia dell’America Latina a livello politico ed economico sia stato portato sull’orlo di un abisso.

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