Chi non lavora, non mangi

A cura di Giulio Menichelli

Non sono un assiduo frequentatore del mondo della posta. Ricevo poche lettere, pochissimi pacchi. In un anno la mia corrispondenza fisica probabilmente è inferiore a quella che un qualsiasi ufficio ha in un solo giorno. Eppure qualche giorno fa qualcuno ha avuto l’idea di inviarmi qualcosa. Cosa? Non ne ho davvero la più pallida idea. Direte voi allora: Giulione, perché ce ne parli? Perché hai deciso di trattare di qualcosa che ignori totalmente? Beh, la risposta è piuttosto semplice: non posso far finta che questa cosa non sia stata spedita, non sia stata caricata da un postino sul suo furgoncino e non sia stata persino consegnata all’ufficio postale. E allora perché non ne so nulla? Procediamo con ordine.

Un giovedì mattina un postino è venuto sotto casa mia e, sostiene lui, ha citofonato. Io ero nella mia camera, chino sui libri come tutta la mattinata. Che cosa insolita! Per qualche motivo non mi sono accorto di nulla (forse perché non è avvenuto nulla che io potessi percepire) e di conseguenza il postino ha lasciato nella mia cassetta un avviso di giacenza che recita così: “La informiamo che è a Sua disposizione per il ritiro presso l’Ufficio x dalle ore y del giorno z l’invio sotto indicato”, segue una casella sbarrata e l’indicazione “PACCO”, “proveniente da” spazio vuoto. Un PACCO. Da un mittente anonimo. Ad ogni modo, il detto giorno z, sabato, sarei dovuto partire, quindi mi sono premurato di andare il giorno dopo, venerdì, all’ufficio postale a chiedere se, per caso, avessero già ricevuto il mio PACCO o ne avessero avuto notizia. Vengo schernito dalla signora allo sportello: “Non sa leggere? C’è scritto di venire domani alle 12! E poi non si capisce niente di che c’è scritto qui!”. Io ho spiegato che l’indomani sarei dovuto partire e le ho chiesto di ricordarmi quanto durasse la giacenza (non indicata sull’avviso). Mi ha risposto, ancor meno garbata, che non poteva saperlo perché non era specificato il tipo di invio (in fondo era un PACCO). Allora ho pensato bene che sarebbe stato più utile riprovare il giorno seguente, ritardando la partenza. Tornato a casa ho trovato un altro avviso di giacenza, per lo stesso invio, senza ulteriori specificazioni, che mi invitava a ritirarlo la domenica, due giorni dopo. D’altronde si sa, la domenica tutti gli uffici postali sono aperti! Così ho deciso di ignorare la goliardia del postino e di presentarmi l’indomani. Del PACCO, ancora una volta, nessuna traccia. Stavolta lo sportellista, ancor meno cortese della collega, mi ha però assicurato che, senza dubbio, meno di un mese non sarebbe rimasto nell’ufficio. Potevo tranquillamente tornare a fine agosto e avrei trovato il PACCO ad attendermi. Che fortuna! Ho comunque chiesto se fosse possibile tenerlo qualche giorno in più, nel caso non avessi fatto in tempo. Non ho mancato di tornare a fine vacanze, dodici giorni dopo la prima visita. Una terza sportellista, stavolta conciliante e cordiale, mi ha comunicato che purtroppo il PACCO che cercavo era stato mandato indietro e che lei non poteva reperire nessun’altra informazione. Dopodiché ha chiesto al collega, dal quale avevo avuto le rassicurazioni, quale fosse la giacenza prevista per invii come il mio. Lui, spavaldo come non mai, ha risposto fermo e deciso “So’ ddièci ggiorni!”. Come dieci giorni? Non aveva detto un mese? Non aveva detto che me lo conservava?

Alla fine di questa storia io, utente, so che qualcuno mi ha inviato qualcosa e che questa cosa è stata da qualche parte per qualche tempo, senza sapere né chi, né cosa, né dove, né quando. Eppure ho avuto a che fare con tre sportellisti e almeno un postino. Però Il postino non ha citofonato per consegnarmi il pacco e gli sportellisti non mi hanno fornito informazioni chiare. Nessuno di loro ha svolto il compito cui era preposto. Tutti e quattro percepiscono uno stipendio.

Questa piccola vicenda d’inefficienza mi porta ad una riflessione per me un po’ spaventosa: e se puntare ad un modello nel quale l’occupazione (o meglio, la retribuzione) è il principale obiettivo sociale, non sia la soluzione? E se fosse giusto che chi non svolge bene il suo lavoro muoia di fame? In fondo, come mi ricorda sempre mio padre, San Paolo scriveva: “chi non lavora, non mangi”. Ed in fondo non è giusto che, manuali di diritto a parte, chi lavora bene percepisca in concreto quanto percepisce chi lavora male o non lavora affatto, pur essendo parimenti occupato.

Forse sarebbe opportuno iniziare dei percorsi valutativi dei dipendenti con degli effetti concreti, anche e soprattutto nel settore pubblico o nei servizi di pubblica utilità. Forse sarebbe opportuno allentare le maglie della tutela dell’occupazione ad ogni costo ed essere più orientati verso il risultato. Forse, in conclusione, sarebbe opportuno mettere davvero il servizio svolto per la collettività davanti ai vantaggi attesi dal singolo, efficientando il sistema.

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