Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli.

A cura di Martina Nunziata-

<<Nella folla la personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee si orientano lungo una sola direzione, formando così una sorta di anima collettiva>>, così scriveva Gustave Le Bon nel 1895 nel suo libro “Psicologia delle Folle”. D’altronde non è altro che l’effetto della “suggestionabilità”: ogni individuo trova uno scudo protettivo all’interno della folla ed è pronto a fare propri i sentimenti, le convinzioni e gli impulsi che in condizioni normali rifiuterebbe. La capacità critica si affievolisce ed anche le teorie più inverosimili sembrano avere un loro sostrato razionale. Ma cosa alimenta questo “contagio mentale” per cui ogni convinzione, per quanto infondata, tende a propagarsi vertiginosamente? Non è forse l’indiscutibile assenza di certezze e l’opprimente stato di intangibilità a stringere l’individuo contemporaneo in una morsa costringendolo ad accogliere qualsiasi teoria pur di appagare la propria sete di conoscenza?

Oggi si parla di aerei che lasciano scie velenose capaci di cancellare la memoria e di controllare i cambiamenti climatici, di case farmaceutiche disposte a sacrificare brutalmente la salute e la vita dei consumatori in nome del profitto e, addirittura, di governi controllati da alieni rettiliani che complottano per condurre ad un Nuovo Ordine Mondiale.

Il filosofo K. R. Popper riporta il fenomeno del complotto alla secolarizzazione di una superstizione religiosa. Dalla credenza negli dei omerici, le cui cospirazioni spiegavano la storia della guerra di Troia, si passa a “sinistri gruppi di pressione la cui perversità è responsabile di tutti i mali di cui soffriamo”.

Si genera una sorta di manipolazione mentale sicuramente resa molto più semplice nella società contemporanea in cui anche la sfera culturale viene assorbita dal mercato, mettendo a rischio ogni possibilità critica con un paradosso che sembra mutuato di peso direttamente da un romanzo di Orwell. Quando la cultura diventa “merce”, la produzione culturale assume gli stessi connotati della produzione industriale: soddisfa bisogni fittizi, è standardizzata e omologante. Tutto diventa trasparente, l’informazione è afferrabile con un click e, a quanto pare, manipolabile ancor più facilmente. Non a caso oggi si parla dell’ “era della disinformazione”, una contradictio in terminis per quelli che come noi conducono una vita interamente proiettata nella rete e si cibano della sua biodiversità informativa.

Le teorie del complotto si riducono così a casse di risonanza di un disagio diffuso, manifestazioni di un malcontento sociale talmente profondo da alimentare convinzioni precostituite, spesso frutto dell’ignoranza e della paura, che alla fine si rivelano per quello che sono: dolorose spine nel fianco, autocompiacimento di chi le ha divulgate.

 

 

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