Vulgus vult decipi, ergo decipiatur!

A cura di Andrea Curti-

Lo strapotere della pancia e il ritorno al banale

Proprio così.
I motti latini hanno la straordinaria capacità di fotografare con poche, semplici parole un complesso
mondo d’immagini, che sintetizzano con sapiente efficacia provocatoria.
Non sfugge a tale insuperata virtù neppure quello –riportato nel titolo- attribuito al cardinale Carafa nel XVI secolo: “il popolo vuole essere ingannato, lasciamo dunque che s’inganni”.

 

Il lettore accorto avrà notato che il dibattito politico del nostro Paese è ingabbiato, per la verità già da mesi, in una campagna elettorale macchiettistica che, come mai prima d’ora, rincorre gli istinti di un popolo pigro, confuso e avvezzo alle semplificazioni sui temi più vari.

Chi più chi meno, chi sfacciatamente chi vigliaccamente, tutti i protagonisti della scena politica, nessuno escluso, stanno impostando la propria proposta elettorale nel medesimo modo: giocare al ribasso.

Cosa si rischia?

In primo luogo si rischia di confondere ciò che naturalmente e opportunamente deve far parte di una campagna elettorale (proposte in riposta ai bisogni dei cittadini in funzione del bene comune, al di là dei colori) con ciò che sarebbe invece più appropriato fare in una televendita (intercettare gli umori elevandoli a slogan per vendere il prodotto).

Un conto, s’intende, è promettere qualcosa in funzione di bisogni reali, altro conto è dire la qualunque per accontentare malumori indefiniti in vista del consenso.

E non si tratta di evocare un mondo perfetto o letterario in confronto alla dura, tapina realtà.

Si tratta di evocare ciò che, a grandi linee, è sempre accaduto perfino nella nostra democristianissima Italia rispetto a ciò cui assistiamo, disgraziatamente abituati, in questi mesi di mediocre dibattito.

Il secondo rischio, legato al primo e per la verità già abbondantemente osservato nei fatti, è quello della depoliticizzazione dei contenuti. Lo notano tutti i più autorevoli commentatori: le prossime elezioni si giocheranno su pochi temi d’impatto uguali per tutti, a cui tutti forniranno, al di là delle deboli cornici decorative personali, le medesime risposte. Si pensi all’immigrazione, alla sicurezza delle città, alle pensioni: si vince o si perde sulle stesse questioni.

Tutte tematiche la cui urgenza testimonia di un reale bisogno di attenzione, ma la cui eccessiva esposizione mediatica ha prodotto l’annullamento delle distinzioni valoriali –volendo fuggire dall’equivoco di citare il concetto, purtroppo superato dalla storia, di ideologia- perfino tra le due macroaree del centro-destra e del centro-sinistra.

Non che sia necessariamente un male se le proposte corteggiano il buon senso; ciò che è certo è che l’appiattimento, opportuno o meno che sia, impoverisce il dibattito sacrificando la complessità sull’altare della banalizzazione concettuale, che porta voti ma crea ignoranza.

In terzo ed ultimo luogo si rischia di annichilire il leaderismo.

Certo è infatti che con l’andar del tempo, familiarizzando con un sistema come quello pocanzi descritto, a fronte di una proposta monolitica a tinte unite e, in fin dei conti, impersonale, conterà sempre meno il volto che si impegnerà a portarla avanti, una volta tramontati i grandi –elettoralmente parlando- nomi che ancora oggi dominano la scena.

Testimonianza di questo imponente cambiamento la fornisce l’unico soggetto politico realmente nuovo nel panorama italiano: il M5S. Nello specifico il riferimento è alle varie consultazioni online che periodicamente vengono lanciate.

Nei fatti le primarie a cinque stelle non sono mai la vetrina in cui diverse linee d’azione politica si mettono a confronto all’interno del medesimo partito al fine di individuare la “corrente” che avrà l’onere e l’onore di guidare la proposta, ciò che di norma è la ragione unica e ultima per lo svolgimento di primarie, ma piuttosto l’individuazione del nome che avrà, da primus inter pares, la possibilità di condurre il popolo grillino al potere sulle solide fondamenta di un programma condiviso, immutabile e immanente.

Non dunque l’elezione di un leader, della sua corrente di pensiero e d’azione col sostegno del partito, ma l’individuazione di un capopopolo: la strada ha una direzione sola, poco conta chi apre la fila.

Del resto proprio questa vorrebbe essere la lezione dei cinque stelle alla politica: chiunque, ma davvero chiunque, può fare politica e avere la propria occasione.

Il problema è che chiunque è nemico del meglio che, stando almeno alle intenzioni, è il bacino entro il quale si dovrebbero pescare i volti del potere.

È dunque un fatto che il tramonto della figura del leader -di pensiero e d’azione e dunque politico– si inserisce nella scia d’impoverimento culturale latu sensu che sta flagellando la scena politica da ormai molto tempo.

 

Ecco allora i tre principali rischi a cui conduce questo gioco al ribasso che trova nell’attuale campagna elettorale perpetua la propria massima esaltazione.

I colpevoli ultimi, in un processo di legittimazione, sono pur sempre coloro che legittimano: nel processo elettorale, gli elettori.

L’inabissamento degli istinti, dei bisogni, del pensiero verso logiche elementari e semplicistiche, l’anemia dell’ideale e l’abulia accidiosa che rende l’approfondimento, la critica e il confronto faticosi e dunque evitabili hanno condotto ad un unico, inevitabile e forse voluto risultato: lo strapotere della pancia.   

Dove domina la pancia, arretra il cervello. Dove prevale l’istinto, si silenzia la ragione.

 

E, si badi, non si tratta di sedersi sull’alto scranno della verità a giudicare, dal comodo velluto dei cuscini di salotti ovattati, le necessità anche semplicissime che provengono da un popolo che, prima della filosofia, deve pensare a mangiare, a lavorare, a godersi la vecchiaia.

Non si tratta di questo. Non si tratta di avallare l’elitario pensiero di un certo mondo radical chic che pensa di poter dare patenti d’intelligenza e adeguatezza al resto dell’umanità, con i canoni di un’etica ritenuta superiore anche se spacciata per democratica, popolare ma, in verità, profondamente totalitaria, nella peggiore accezione del termine.

Si tratta, più semplicemente, di spostare il focus della critica dalle ragioni del popolo, che esistono e sono sempre legittime, alle azioni della politica, che sin dai tempi dell’illuminata Grecia periclea viene assunta a terreno d’incontro e scontro d’ideali e proposte per il miglioramento di una realtà che la classe dei detentori del potere è tenuta ad elevare, a migliorare per il benessere di tutti.

È il concetto minimo di rappresentanza: mentre io penso a procurarmi il cibo, a trovare un lavoro, a farmi una famiglia o a godermi la vecchiaia, ti delego il potere di fornirmi le migliori condizioni possibili entro le quali poter realizzare tutto questo.

Se invece si decide d’affondare –e, si badi, in politica si inizia ad affondare quando si rinuncia alla visione e si predilige il contingente- non sfuggirà a nessuno che in fondo al mare, chi prima chi dopo, ci finiscono tutti.

Ecco allora spiegata la provocazione del titolo, responsabilità diverse in capo a soggetti diversi; il legittimante e il legittimato. Ad una maggiore attenzione dei primi corrisponde una maggiore caratura dei secondi.

E nel cercare di capire a chi tocchi fare il primo passo, basta forse guardare a chi conviene di meno e ragionare così per esclusione: vulgus vult decipi? Lasciamo realmente che s’inganni o invertiamo la rotta allontanando il dibattito dalla pancia? Staremo a vedere chi farà la prima mossa.  

 

Riflessioni banali e retoriche? Ma sì, probabilmente sì.

Sta di fatto che quando l’analisi e la critica devono incontrare un mondo senza canoni come quello che sembra dominare la scena politica di questi mesi, probabilmente la banalità è un efficace strumento per tornare su binari argomentativi migliori e individuare le falle di un panorama francamente desolante.

La retorica, che spesso accompagna la banalità, è solo un vezzo di scrittura che inevitabilmente condisce il testo quando ad esser raccontate sono cose ovvie, o dovrebbero esserlo.

Il resto son chiacchiere da bar, peraltro in assoluto le più interessanti.

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