Elezioni, Energia e Scuola: intervista a Giuseppe Basini.

Parte I

di Matteo Politano e Alberto Rando-

Giuseppe Basini è uno dei protagonisti della storia recente del liberalismo italiano. Storico membro del Partito Liberale dei Benedetto Croce e dei Luigi Einaudi, è stato nel ’93 uno dei fondatori di Alleanza Nazionale, Senatore nella XIII Legislatura (1996-2001), prima di dimettersi dalla Direzione Nazionale della stessa AN per divergenze con la presidenza sulla linea del Partito. Da sempre alla ricerca della creazione di una destra italiana convintamente liberale, liberista e nazionale, Basini è oggi Presidente onorario del moderno PLI, ed è candidato alla Camera nelle liste della Lega, come secondo nome nel Collegio Proporzionale di Roma Centro. Figura unica nel panorama politico anche per la vocazione scientifica, Dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Guest Professor presso il CERN di Ginevra, è anche, insieme al Prof. Capozziello, autore della Open Quantum Relativity, teoria che ha matematicamente dimostrato la possibilità di viaggiare nel tempo.

Dottor Basini, qual è lo spazio che un liberale e liberista convinto come lei può trovare all’interno di una coalizione come quella di questo centro-destra, che a parere di molti liberali, sarebbe ben poco liberista? E soprattutto, qual è lo spazio all’interno della Lega?

La Lega è un partito convintamente liberista fin dalle origini. Infatti il programma economico della Lega fu interamente scritto da Giancarlo Pagliarini (poi Ministro dell’Industria, ora indipendente), che era un liberista quasi estremista, un liberista alla Antonio Martino proprio. Quindi, la Lega non ha mai avuto venature socialiste.  E’ vero, che dal punto di vista di un liberale classico, si occupa più di trasferimento di potere dallo Stato alle regioni, ma l’ultimo passaggio, quello del trasferimento dei poteri al cittadino (base del federalismo tutto) nella Lega c’è sempre stato. Vuole abbassare le tasse, tanto che la Flat Tax è proprio figlia di questo modo di pensare, e propone di togliere molti lacci che vincolano il cittadino. Per tutto questo la Lega è sempre stata sostanzialmente liberista, quindi da questo punto di vista nessun problema. Non ha mai avuto concezioni stataliste.

 

Neppure da parte dei suoi leader storici? Umberto Bossi in gioventù militò in vari gruppi comunisti anche a sinistra del PCI, quell’area che era definita come l’estrema sinistra, stessa cosa Roberto Maroni.

Bossi e Maroni in realtà non si sono mai occupati della politica economica della Lega, quella la faceva Paglierini, comunque neanche loro hanno mai parlato di statalismo, han sempre parlato di meno tasse, partite IVA e così via, per cui col liberismo la Lega ha sempre avuto le carte abbastanza in regola.

 

Anche oggi con Salvini?

Direi anche di più con Salvini, perché lui, avendo molto meno degli altri il concetto delle regioni forti, non sta introducendo forzatamente uno step intermedio verso il liberismo. D’altro canto i suoi economisti sono liberisti, che dicono delle cose che ricordano l’ingiustamente dimenticato Bruno Leoni. Tanto che al convegno che abbiamo organizzato sulla Flat Tax, io ho invitato Salvini e  Nicola Rossi, Presidente dell’Istituto Bruno Leoni, il quale ha delle concezioni praticamente reaganiane per quanto sono liberiste.

 

Ed il resto del centro-destra crea problemi con il liberalismo ed il liberismo?

Beh. Berlusconi è liberista. Il suo problema è che non sempre nell’azione di Governo è stato coerentemente liberista, ma le sue affermazioni lo sono. Fratelli d’Italia è un po’ più erede della destra sociale, però anche la Meloni fa discorsi contro le tasse ad esempio. Di certo non si può dire che FDI sia un partito liberista, è un partito di destra, ma non liberista. Quindi complessivamente il centro destra è quanto di più liberista si possa avere ora in Italia, e la Lega pure. Certamente, se vogliamo il liberismo più classico, quello che in realtà va chiamato “Libertarian”, quello c’è nei paesi anglosassoni, qua non c’è mai stato. Da quando è caduta la Destra Storica del 1876, un partito liberista in tal senso in Italia non c’è mai stato.

 

Ed al momento chi ci si avvicina di più? Anche come singoli individui magari.

Chi ci si avvicina di più direi che sono alcuni esponenti sia della Lega che di Forza Italia, singoli che, però, dettano un po’ la linea. Certo non è un Tea Party Italia per esempio, ma i grandi partiti difficilmente sono così ideologicamente improntati. D’altro canto, anche in America, non sia che Trump è liberista eh. E’ un uomo di destra che è anche liberista, ma anche statalista su altro. Non è Ted Cruz, men che meno Ronald Reagan.

 

Lei è un reaganiano convinto giusto?

Lo sono da sempre. Il libro che ho scritto (il De Libertate) l’ho dedicato a Reagan, ma in realtà sono un pre-reaganiano, nel senso che feci i comitati per Barry Goldwater in Italia, alle presidenziali del 1964. Goldwater era un libertarian convintissimo, era un fautore della libertà, sia personale che economica, credeva che lo Stato non dovesse intervenire per cambiare la società sottostante. Perse drammaticamente le elezioni (90,3% dei Grandi elettori contro il 9,7, NdR), anche perché dall’altra parte c’era un democratico di destra come Lyndon Johnson, non è che avesse di fronte un democratico di sinistra. E le perse così massicciamente che da lì in poi non ebbe più reale importanza nel Partito Repubblicano. Tuttavia, alla Convention Repubblicana che nominò Goldwater, ci fu il discorso di un politico, allora poco conosciuto, e poi diventato talmente importante che, da allora, quando si parla di quel discorso, non si dice “il discorso di”, lo si chiama “The Speech”. Si trattava di Ronald Reagan.

 

Che tipo di Presidente era secondo lei, anche rispetto a quel Goldwater suo precursore in molti aspetti?

Reagan era un uomo di una cultura più completa rispetto a Goldwater, perché era laureato in economia e sociologia. Poi era sì un attore, ma anche Presidente del Sindacato degli attori, quindi si occupava di politica anche da attore, e poi fu Governatore della California, quindi ha fatto tutti gli step. Questa sua formazione faceva sì che sapesse dire le stesse cose di Goldwater, ma in maniera meno scoraggiante. Quando Goldwater in epoca di Guerra Fredda diceva “meglio morti che rossi”, e parlava seriamente, la gente si spaventava.

 

Tra l’altro Goldwater è rinomato anche perché quando fu promulgato il Civil Rights Act contro la segregazione razziale, lui era contrario, e proprio perché, in quanto libertarian, si batteva sia per il diritto dei datori di poter discriminare sul posto di lavoro, sia perché riteneva che “legiferare sulla moralità” andasse oltre i compiti di uno Stato.

Era talmente estremista che il suo discorso non fu compreso dai più. Anche perché era un discorso fondamentalista, non aveva sfumature, quindi faceva paura. E poi c’è un fatto: Reagan aveva avuto il vantaggio di arrivare dopo Goldwater, il quale aveva già aperto la strada, prima di lui non c’era nessuno che dicesse le cose in quel modo, c’era solo il repubblicanesimo mite di Eisenhower. Soprattutto, il Partito Democratico allora era in mano ad anticomunisti come John Fitzgerald Kennedy, che oggi la sinistra venera. Andate a rileggere quello che la sinistra diceva allora su Kennedy quando era al potere: lo trattavano molto peggio di come trattano oggi Salvini. Ed era Kennedy, un anticomunista convinto, e il padre era ambasciatore americano a Berlino, ed aveva note simpatie di destra. Bob Kennedy era di sinistra, ma Bob non era il protagonista.

 

Neanche il fratello minore Ted Kennedy, rinomato Senatore per decenni, era di sinistra?

Ted non era niente. Ted era il fratello dei Kennedy. Non era un personaggio politico di spicco. John e Bob sì. Solo che John era di destra, non di sinistra.

 

Lei è, prima di tutto, un fisico nucleare e un uomo di scienza. Tralasciando la battaglia del nucleare che non è più parte del nostro tempo, ed è finita come è finita, si può fare ancora qualcosa per la scienza, e per l’industria? Crede inoltre che il Governo possa dare un impulso alla scienza applicata all’industria, e magari al nucleare? E se sì, come?

Allora, l’Italia strutturalmente e storicamente ha una presenza fortissima nella scienza fondamentale e teorica. Io direi tranquillamente che è uno dei 3-4 paesi più avanzati al mondo in questo campo, insieme a USA, Russia e Giappone. Più di Germania e Inghilterra sicuramente.  D’altro canto, io ho lavorato tantissimi anni al CERN, e c’è stato un periodo in cui sia il Direttore Generale che il Direttore della Divisione Ricerca erano italiani, e due su quattro dei più grandi esperimenti erano guidati da italiani. L’Italia contribuisce al 14,7% del bilancio del CERN, ma ha avuto una presenza nel mondo della ricerca del CERN almeno doppia. Basti pensare che gli acceleratori di particelle più importanti oggi sono gli anelli di accumulazione, a partire dal primo che si chiamava ADA, costruito a Frascati. Ma l’Italia, nella fisica applicata, quella che in un certo senso diventa ingegneria, è molto indietro rispetto agli altri per una serie di motivi.

 

Quali motivi?

Regole sbagliate, una certa sordità accademica, una certa mentalità delle aziende, la natura stessa delle piccole e medie imprese, e, forse la cosa più dannosa di tutte, una certa mentalità di sinistra che oggi non c’è più (ma c’è stata per 40 anni) sul rapporto con le industrie. Il primo motivo: c’è stata a lungo una politica per la quale il brevetto di una certa scoperta, era interamente proprietà del laboratorio. Questa visione assurda di non riconoscere il merito del singolo, in cui tutti venivano pagati ugualmente, in realtà portava al fatto che gli scienziati erano pagati liberamente, ma in maniera esigua dal punto di vista remunerativo. Vi era un ingente stacco tra lo sfruttamento economico, tanto di gruppo quanto del singolo, e la scoperta. Soprattutto: in Italia c’è stata per decenni una polemica da sinistra contro il rapporto tra università e industria, era considerato incestuoso e blasfemo. Fu combattuto nel ’68, da studenti che gridavano contro l’entrata del capitalismo nell’università,  non volevano nessun rapporto con le industrie. Era il leit-motiv di questa gente, poi hanno cercato di porre rimedio con i programmi finalizzati del CNR, ma c’era un ottica statalista: l’applicazione tecnica deve sempre essere market-oriented. Se tu decidi a priori di finanziare una certa ricerca, con il metodo accademico (“lo studio è bello quindi lo faccio”), l’azienda non ti darà ascolto. Le aziende, dato il farraginoso apparato statale, e queste manie programmatorie dall’alto, si sono abituate a far da sé, ma spesso non erano grandi abbastanza per fare ricerca applicata ad un certo livello. Ed ecco l’ultimo punto che rende difficile quella applicata in Italia: abbiamo una miriade di piccole e medie imprese, poche grandi. ENI, Montecatini, Fiat ecc. non erano e non sono tante le grandi aziende italiane, di sicuro sono poche rispetto alle altre grandi nazioni. E in Italia le piccole imprese cosa possono fare? La ricerca è costosissima.

 

Ma sull’energia quali sono state le cause dei molti problemi che abbiamo riscontrato nei decenni?

Partiamo dall’ indipendenza energetica: nel 1962 l’Italia era il secondo paese al mondo per potenza elettro-nucleare installata. Poi hanno nazionalizzato l’industria elettrica, e l’ENEL si è trovata talmente indebitata alla partenza che la nazionalizzazione l’han pagata: e si è ripercosso sui mutui a lungo termine per la società. A quel punto l’ENEL, che non poteva investire sul nucleare, il quale costava molto inizialmente e molto poco successivamente, investiva su cose la cui realizzazione costava pochissimo, come il termo-elettrico, il cui prezzo è aumentato sensibilmente con il decorso del tempo. Ci sono state anche cause terribili, ad esempio,negli anni ’50, un deputato di sinistra (stranamente nel giusto), Felice Ippolito, da Presidente del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare, diede un fortissimo impulso allo studio dei reattori in Italia, tuttavia, lo mandarono in prigione, con l’unica accusa provata che era a dir poco una sciocchezza. In realtà, le industrie petrolifere americane eliminarono un concorrente: il CNEN era in procinto di rendere commercialmente operativa in Italia una filiera di reattori nucleari italiani, dei quali, i primi erano tutti comprati su licenze di industrie americane. Tuttavia, nei nostri Centri di Ricerca i reattori stavano per arrivare alla soglia critica: l’approdo ad una licenza di costruzione di una operativa centrale nucleare italiana, che ci avrebbe svincolati dalle citate licenze e brevetti americani.
Ippolito poi ebbe la grazia e divenne Parlamentare europeo, ma nel CNEN stava facendo molto, molto bene. Però, Enrico Mattei ha fatto la fine che ha fatto, Ippolito idem, e l’indipendenza energetica italiana è andata a farsi benedire.

 

E sul referendum del 1981 sul nucleare?

Un buffo aneddoto personale: vengo chiamato dalla Stato maggiore della Democrazia Cristiana, mi danno l’incarico di scrivere un libretto a favore dell’energia nucleare che potesse essere facilmente compreso dagli elettori. Dopo un mese torno, e chiedono scusa per non avermi avvisato del fatto che il segretario Ciriaco De Mita aveva cambiato idea e deciso che la DC non poteva rischiare di appoggiare il sì al nucleare. Incredibile, ma vero. Da allora sul tema non mi dispiacque più per il Paese, dico la verità.

 

Cambiando completamente campo, una risposta chiara e netta sulle parole del Presidente Grasso, riguardo le tasse universitarie gratuite per tutti.

In realtà, io sono d’accordo con Grasso. Credo che l’Università debba essere gratuita. Attenzione però: vorrei anche che fosse introdotto in Italia l’istituto delle Fondazioni in senso anglosassone, che da noi non esiste.  Cioè: se tu, con una Fondazione, fai beneficienza dando un contributo all’Università, te lo detrai integralmente dalle tasse.  Ritengo che nessuno debba pagare l’Università, in un mondo ideale dovresti esser tu ad esser pagato, perché il tuo lavoro è studiare. In realtà, in Italia abbiamo penalizzato il diritto allo studio in maniera totale. Quando ero ragazzo io, gli anni dell’Università erano contabilizzati all’atto della pensione, senza che si dovesse pagare nulla, era considerato lavoro non retribuito. Trovo assurdo il fatto che una persona debba pagare 4000 euro l’anno per far studiare il figlio. Renderlo gratuito sarebbe possibile, non si tratta di cifre esorbitanti. Inoltre, introducendo le Fondazioni, i privati possono effettuare donazioni. Io sono per rendere il diritto allo studio effettivo abolendo le tasse universitarie. Sono però per un’istruzione davvero libera: ed infatti sono contrario anche alla scuola pubblica.

 

La scuola pubblica non porta ad una istruzione davvero libera? Perché? 

Perché la pubblica, inevitabilmente, trasmette sempre  due valori: la disciplina, ed il modo politico di pensare di chi è al governo in quel momento. La scuola elitaria privata del Settecento ha prodotto il Liberalismo. La scuola pubblica obbligatoria dell’Ottocento ha prodotto il Comunismo, il Fascismo e il Nazismo.

 

Per quale ragione?

Perché la scuola pubblica, in tutto l’Occidente, tranne nei Paesi anglosassoni, nasce con uno scopo: dare come primo valore la disciplina. Perché bisognava preparare i ragazzi alla disciplina degli esercizi di leva. Era funzionale al servizio militare la scuola. Si andava in uniforme: da bambino io avevo un’uniforme nera, con su scritto il numero dell’anno che frequentavo. E’ nata totalitaria: lo è di natura. Perché serviva in primis in un Paese in cui i bambini a scuola non ci andavano, ed i genitori non volevano mandarceli; d’altronde il 76% degli italiani era composto da analfabeti, con punte del 90 nel Sud. In secundis era per prepararli, perché la leva allora era di due anni: due anni erano pesanti per il figlio di un contadino il quale vedeva sottrarsi un aiuto per il lavoro da svolgere. Ciò avveniva non solo in Italia ma ovunque negli altri paesi moderni fatta eccezione per gli anglosassoni, i quali erano sostanzialmente nati contro il potere per diritto divino, e presero un’altra strada fin dall’inizio. Questa strada era già più liberale delle altre, non bastò agli americani, che fecero la Rivoluzione del Thè contro gli inglesi stessi.

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