Invasori

A cura di Giulio Menichelli-

Ti svegli la mattina per andare a fare la spesa al tuo supermercato di fiducia, un SuperU, e cominci a sentire qualcuno urlare. Dice che Dio è grande e che vuole ottenere la libertà di un signore che tre anni fa ha sparato sulla folla in un teatro. Sei nel sud-ovest della Francia, in una cittadina chiamata Trèbes, vicino Carcassonne, lontano dalle grandi città e ti chiedi come sia possibile che anche qui ci siano problemi di integrazione così grandi.

Comunque le cose evolvono velocemente: l’attentatore comincia a sparare e uccide tre persone, tu e gli altri vi mettete a terra. Poi un gendarme si propone di rimanere al posto degli ostaggi, e quindi riesci a uscire. Tre morti, sedici feriti. Il giorno dopo scopri che anche il gendarme che ti ha salvato è morto.

Deve essere un’esperienza senza dubbio traumatica: un’attività così normale come fare la spesa che si trasforma in un incubo di tre ore in cui temi per la tua vita. In fondo non sei ad un concerto, non sei in un posto affollato né in una situazione pubblica ad alta pericolosità. Stai decidendo se comprare il pollo o il tacchino.

Però sai, è la Francia, la situazione è tesa, poi di questi arabi non c’è da fidarsi, si sa che sono tutti un po’ esaltati.

Eppure questo clima a Lione non si respira in realtà. Certo, sai che se cerchi droga o sigarette di contrabbando devi andare alla Guillotière, che funge da quasi-banlieu interna lionese, ed è più probabile che sia un discendente di Harun al-Rashid piuttosto che uno di Carlo Magno a vendertele, però non vai in giro con la paura costante di trovarti in pericolo.

Perché in realtà il pericolo è come se non esistesse. Sarà l’Erasmus, ma noto più spesso il ragazzino del liceo sul tram che si alza per far sedere la donna con il velo, rispetto alla pattuglia di dodici soldati armati che ogni giorno percorre avanti e indietro la via che collega la stazione di Perrache a Place Bellecour. È più frequente trovarsi davanti, anche nell’università, gruppi di ragazzi di etnie diverse chiacchierare tra loro, che un poliziotto invitare un ragazzo ad aprire lo zaino per controllare se ci sono esplosivi.

Penso al nostro paese. Qualche giorno fa ricorreva l’anniversario del rapimento di Aldo Moro. Immagino che in quegli anni si tendesse, da una parte, a ricondurre troppi eventi al terrorismo ideologico, e, dalla parte opposta, che i giovanotti affamati di lotta politica, più o meno violenta, invocassero un po’ troppo facilmente quella stella cerchiata ed altri simboli per giustificare i loro gesti, a volte solo spregiudicati.

È una questione di prospettiva. Lo stesso Ministro dell’Interno francese, Gérard Collomb, ha detto nella conferenza stampa di venerdì che in realtà si tratterebbe “di un piccolo delinquente locale noto per spaccio” e che “è sicuramente una rivendicazione a posteriori” quella di Daesh, che comunque sembra esserci stata. L’ISIS ha colpito ancora o si tratta solo di un gesto isolato, di un piccolo attore mediatico che voleva avere i suoi 15 minuti di notorietà? Chi lo sa? Io sono scettico, soprattutto sulla base di ciò che vedo qui, di ciò che ho visto a Marsiglia, e di quello che ho notato tra i miei compagni di viaggio nelle interminabili ore di Flixbus. Più che di arabi invasati, come spesso sembra si voglia orientare l’opinione pubblica, ciò di cui posso parlarvi è di francesi delle ex-colonie.

Francesi. Gente che va allo stadio a vedere la partita cantando la Marsigliese, che “De Gaulle ha fatto grandi cose”, che la Repubblica prima di tutto. Non stranieri, non invasori, ma francesi che vengono dalla parte opposta del Mediterraneo. Basta così poco per generalizzare, per trasformare alcuni gesti autogestiti e poi rivendicati da un’entità esterna al Paese e comunque non ben definita, nell’azione collettiva di una minoranza che si vuol raccontare rancorosa e affamata di spazio ed egemonia culturale?

Non credo, soprattutto perché non è ciò che vedo.

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