Questo lo posso dire? No!

A cura di Francesco Mezzasalma

 

“Questo lo posso dire? No!”. Questo è lo scambio di battute tra il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il suo vice Di Maio in parlamento.

È chiaro come nei sistemi proporzionali ci sia la necessità di governi frutto di accordi, alleanze o inciuci: questa è stata la nostra storia repubblicana, nella quale i partiti si sono composti in tutti i modi possibili per raggiungere la maggioranza. Ma se ti chiami Di Maio, hai sempre disprezzato questo modo di fare politica e grazie a ciò hai raccolto consensi, e perciò non puoi andare dai tuoi elettori e raccontargli che sei solo un politico come gli altri e che i risultati elettorali ti impongono di allearti con gli altri partiti. Allora iniziamo ad inventarci il contratto alla tedesca, il governo del cambiamento (non sappiamo verso che direzione), lo Stato siamo noi ed il solenne quanto divertente ‘stiamo lavorando per la storia’.

Una volta creata una grande speranza e riaccesi gli animi dei più dubbiosi sul tema, si procede alla ricerca del futuro Presidente del Consiglio: ed è qui che alziamo ancora una volta il livello massimo di follia. Dopo esserci fatti raccontare per anni che per fare politica non è sufficiente una laurea (vero), che le qualità necessarie sono da ricercare altrove (forse al chiosco del San Paolo), ci vediamo nominare come Premier un signore che del proprio curriculum accademico ne fa una questione di onorabilità personale, paracadutatosi dal cielo stellato. Ora la riflessione è la seguente: se una buona carriera accademica non è importante (anzi) per ricoprire una carica politica di quel livello, perché hanno scelto proprio Conte che, pur di apparire maggiormente preparato, ha redatto un curriculum immenso ed un po’ creativo, allo scopo di rivendicare le proprie capacità professionali?

Forse abbiamo scherzato, e gli studi con la successiva carriera lavorativa non erano importanti fin quando, durante la campagna elettorale, dovevamo giustificare i signori Vice Presidenti del Consiglio, i quali nella loro vita nulla hanno fatto.

Successivamente, Conte, supportato dai suoi Fanta-genitori, si reca al Quirinale per essere incaricato di formare un governo, crea una lista di ministri che gli viene rifiutata da Mattarella, il quale, per la prima volta, tuona sulla formazione di questo esecutivo. Da questo momento in poi c’è soltanto confusione, con il bibitaro campano che non fa altro che strillare la parola “impeachment”, con estrema superficialità. Forse se avesse conosciuto la Costituzione, avrebbe saputo che in Italia si chiama ‘Messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica’ ex articolo 90 Cost., e forse avrebbe compreso la gravità di quegli strilli.

Fortunatamente, nessuno gli da corda e si procede più o meno diritti fino al giuramento del governo. Nel frattempo, in questo lunghissima crisi di governo, abbiamo avuto ogni tipo di rottura delle prassi e del cerimoniale del Quirinale, i quali impongo determinati comportamenti non per il piacere di seguire una forma più o meno rigida, bensì per garantire che attraverso tali procedure non venga meno la sostanza ed il significato della Carta.

Ed infine, si arriva alla richiesta di fiducia dalle camere attraverso un discorso noioso, dove l’unica scintilla passionale del Presidente Conte è stata nel rivendicare la tendenza populista di questo esecutivo. Conte si atteggia da grande giurista nei confronti della platea, spiegando loro da illustre professore il contratto di governo, senza mai scendere troppo nei dettagli, altrimenti l’assenza di coperture sarebbe troppo palese ed è tenuto a stretto guinzaglio da Salvini e Dimaio. E quando Conte, in preda al panico perché non trova gli appunti, prova ad improvvisare, è costretto a chiedere a Dimaio se è possibile o meno parlare di un argomento.

Infine, dopo questo breve excursus, sulle sorti dell’esecutivo non resta che decidere se definirlo un esecutore contrattuale, un Premier a responsabilità limitata o un Presidente radiocomandato.

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