Dentro la caverna 1408

Di Alessandro Avagliano

Il mito della caverna, in cui Platone descriveva l’iter conoscitivo di ogni uomo per giungere alla “verità”, può servire ancora oggi, facendo uno sforzo analogico, per illustrare una condizione in cui probabilmente molti di noi si sono trovati: la condizione di chi non mette mai in discussione le proprie opinioni; di chi è chiuso, per rimanere in tema, nella caverna delle proprie convinzioni. Secondo il mito alcuni uomini sono prigionieri dalla nascita all’interno di una caverna di cui riescono a vedere solo la parete di fronte a loro. Sulla parete vi sono le ombre di statue che vengono fatte continuamente scorrere, all’insaputa dei prigionieri, davanti a un fuoco posto alle loro spalle. I prigionieri conoscono solo la parete, solo le ombre. E come le ombre della caverna anche i pensieri degli uomini chiusi di mente sono solo il simulacro delle convinzioni di qualcun altro. Una situazione che può ricordare, agli amanti del genere, quella del protagonista del film “1408” (tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King). 1408 è il numero della camera d’albergo in cui decide di alloggiare Mike Enslin, scrittore horror specializzato nell’investigazione dei fenomeni paranormali in tutti gli Stati Uniti. La particolarità della camera 1408 è che nessuno che vi abbia alloggiato è rimasto vivo per più di un’ora: tutti sembrano essersi suicidati. Nonostante il direttore dell’albergo cerchi di persuadere in ogni modo Enslin a non entrare in quella stanza, lo scrittore insiste fino ad ottenerne il permesso. Da qui, per dirla con Platone, la “katastrophé”. L’orologio accanto al letto di Enslin inizia un countdown di 60 minuti in cui lo scrittore è vittima di allucinazioni: vede i suicidi avvenuti nella camera, tenta di scappare ma si trova chiuso in una dimensione a-spaziale ritornando sempre nella camera, e ha persino un incontro con il fantasma della figlia, che era morta di cancro qualche anno prima. Documenta tutto col suo registratore. Ma allo scoccare del sessantesimo minuto, l’ora ricomincia. E’ impossibile uscire dalla camera. Analizzando la situazione, si notano diversi punti di contatto tra la vicenda di Enslin e il mito della caverna. 

Sono diversi anni che Enslin vive in una caverna personale, immateriale: dalla morte della figlia non si è più ripreso; pertanto ha dedicato anima e corpo alla ricerca di qualcosa di “altro”, di “oltre” la vita, nella sua analisi del paranormale. Tuttavia, così facendo, ha consumato molti anni nel vano tentativo di alimentare una speranza di trascendenza. Senza saperlo è dunque già prigioniero. La camera 1408, d’altro lato, è una caverna tangibile che si manifesta nell’immanenza, ben visibile, di cui Enslin è pienamente consapevole. Vi è dunque uno scarto rispetto alla cecità iniziale del prigioniero che vede le ombre e non sa cosa siano: ora il prigioniero si è infatti reso conto della prigione e tenta di fuggire. La caverna della 1408 è però una caverna attiva, che non può permettere la fuga di nessun prigioniero. A meno che il prigioniero non si uccida. E cos’è la morte se non un salto nel vuoto? Per Enslin, dopo la morte non c’è né il nulla né l’eternità: è come il paradosso del gatto di Schrödinger, il gatto nella scatola di uranio radioattivo. E’ contemporaneamente vivo e morto, perché l’inconoscibile prevede proprio questo: non che nulla esiste, ma che tutte le possibili ramificazioni della realtà esistono nello stesso momento. Enslin decide così, come gli altri malcapitati della 1408, di darsi la morte, ma introduce un elemento di novità: dovunque lui vada, lo dovrà seguire anche la caverna, l’entità attiva della camera. Appicca un incendio, l’entità svanisce e così la caverna. Enslin si salva. Può dirsi però veramente fuori dalla caverna? Già nel corso della prima allucinazione nella 1408, infatti, Enslin credeva di esserne uscito. Si trattava però di un inganno della caverna stessa. Se essa nota che il prigioniero non si fa più bastare le ombre, gli mostra le statue che proiettano le ombre. E così era stato. Stavolta però Enslin, novello Platone, crede di sapere quali siano le statue e quale la verità. Ripresa la propria vita, si decide ad ascoltare il nastro che conteneva la registrazione degli avvenimenti nella 1408: miracolosamente, dal nastro esce la voce della figlia, che egli aveva incontrato nella camera. Era tutto reale. Dov’è dunque il confine tra caverna e verità? Il confine sta nella costituzione attiva della verità. Infatti anche se ciò che avviene all’interno della caverna è registrabile, questa chiude ogni possibilità di costituzione attiva del reale: è un tormento angoscioso ciclico e vuoto; hegelianamente, non produce storia né fatti (i 60 minuti nella 1408 si ripetono all’infinito senza lasciare traccia dei cicli precedenti). E’ la solitudine dell’uomo chiuso nella propria psiche: l’uomo non conosce e non si fa conoscere, è contemporaneamente prigioniero e carceriere di se stesso. Una situazione in cui molti filosofi si sono trovati, anche se in maniera differente: la caverna non deve consistere infatti necessariamente in una convinzione errata, ma, come nel caso di Enslin, può trattarsi anche di una condizione di dubbio esasperato. In psicologia a volte si fa riferimento agli episodi di derealizzazione e depersonalizzazione: sono condizioni per le quali il soggetto percepisce la realtà o le persone attorno a lui come estranei, come alieni. Per quanto si tratti di patologie psichiche, il loro studio permette di riflettere su temi di un certo spessore metafisico: la realtà che ci circonda è veramente realtà? Cosa rende un’allucinazione diversa dalla realtà fenomenica? Se tutto si riduce al fenomeno, uno schizofrenico non avrebbe ragione di essere considerato malato. Il problema è: chi mai potrebbe risolvere questo dubbio, se ognuno di noi può essere certo solo della propria esistenza (e forse neanche di quella), per parafrasare Cartesio? Tuttavia probabilmente l’uscita dalla caverna non sta nel trovare una soluzione alle proprie afflizioni, ma nello scardinare il motivo stesso di tali afflizioni. E qual è il modo per riuscirci? Facendo un salto nel buio. Forse tutto quello che ci circonda è veramente illusione. Ma dal momento che ogni uomo si trova a vivere questa realtà, è necessario accoglierla per quello che è, senza quelle osservazioni metafisiche che non sono altro che le pareti della caverna. E solo dopo questo passaggio ci “sovvien l’eterno”, per dirla con Leopardi, ma è un eterno che non fa paura. Non è un eterno reale o illusorio, non è quello il problema: è invece una eterna possibilità di meravigliarsi.

Loading

Facebook Comments Box