Black Mirror non parla di tecnologia Se la fortunatissima serie Netflix parlasse ai giuristi?

Di Filippo Marchetti-

Black Mirror è una serie Netflix di successo che non ha assolutamente bisogno di presentazioni. Attualmente conta 4 stagioni (ma ce ne sarebbe una quinta in arrivo) e svariati milioni di spettatori affezionati. Abbonati Netflix e critica hanno accolto con favore la serie e diffusamente se ne parla come di una serie che ha per argomento la tecnologia. Ma è un equivoco.
Il ruolo della tecnologia è importante perché conferisce attualità a dei temi di cui si parla da secoli, ma è in tutto paragonabile a quello che svolgeva la magia nella letteratura. Black Mirror parla di tecnologia quanto le Argonautiche di Apollonio Rodio parlano di stregoneria. Non sono che espedienti utili a consentire un rovesciamento della realtà, rispettivamente del mondo greco-logico-apollineo nelle Argonautiche, e del nostro sentire comune in Black Mirror. La tecnologia realizza una antitesi, nel senso hegeliano di idea dialetticamente contraria. Allo stesso tempo però, i dispositivi tecnologici servono a richiamare l’attenzione dello spettatore e portarla sul paradosso, identificandolo anche graficamente, dandogli quindi una forma immediatamente riconoscibile.
Gli esempi che si possono richiamare sono svariati. In “Arkangel” si inscena la perversione di un controllo parentale così intenso da privare la bambina di ogni contatto col dolore, la morte, lo stress, e se ne immaginano le conseguenze; in “Be right back” si costruiscono replicanti quasi perfetti delle persone defunte, che ne imitano in tutto il portamento e gli atteggiamenti e chiaramente il replicante incarna il paradosso della sconfitta della morte; in “The entire history of you” la memoria diviene indelebile, ma porta gli uomini a vivere schiavi del passato.
Alcuni dei paradossi raffigurati nella serie portano un significato speciale per il giurista, che può risolverli. Si veda White Bear, in cui la protagonista è costretta a scontare una pena disumana, spettacolare, atroce, fine a se stessa, che ci ribadisce l’importanza del rispetto della dignità del condannato anche nell’atto di somministrazione della pena, comunque mai contraria al senso di umanità (art. 27, comma 2, Cost.); tanto “Crocodile” quanto “White Christmas” mostrano tecniche poliziesche di indagine capaci di leggere fra i ricordi degli individui e ci invitano a respingere i mezzi di indagine che privano chi è sottoposto a interrogatorio della sua libertà morale, che va irrimediabilmente identificata anche con la facoltà di mentire, così come prescrive variamente la legge e in particolare gli articoli 188 e 189 del codice di procedura penale; per finire in “Nosedive” viene inscenato un mondo in cui gli uomini sono profilati sulla base dei giudizi che ricevono in ogni interazione, e le possibilità degli individui sono determinate da quanto questo giudizio è positivo (si veda il regolamento UE in materia privacy, esemplificativamente al punto C-71, per avere una idea di come il diritto può rispondere a questo problema, imponendo un intervento umano ed escludendo pericolosi automatismi basati sulla profilazione).
Il giurista deve trarne un messaggio sicuramente non di sgomento. Che il diritto diverrà impotente dinnanzi ai cambiamenti è una idea da contrastare con forza, perché induce a lasciarsi guidare dagli eventi anziché a governarli e indirizzarli. Non si può certo lasciare nella disponibilità dei singoli quanto non è eticamente indifferente (per riprendere l’esempio di prima, i mezzi di indagine che violano la possibilità dell’individuo di autodeterminarsi, oppure la facoltà dell’algoritmo di determinare le chances della persona, né si può consentire che la pena sia un esempio, flettendola a esigenze di spettacolo).
Peraltro, la storia avalla l’idea antitetica, cioè che il cambiamento è quasi certamente disastroso se non lo si regolamenta, se non se ne comprendono le dinamiche e non si trova il modo di scongiurare la “fiumana”.
Bisogna pertanto diffidare di quanti sognano di mettere al riparo dal controllo della collettività importanti decisioni afferenti il bene pubblico (come con le privatizzazioni, per agganciarsi a un tema reso attuale dall’imminenza del referendum a Roma). E’ antistorica e ancorata a contesti sociali che non trovano più risconto nella realtà quella visione del mondo che vorrebbe definita ogni questione da rapporti privatistici. In uno stato democratico il diritto amministrativo è sinonimo di trasparenza e libertà, nonché di preminenza del bene pubblico, non inteso in senso di tirannica preponderanza del Leviatano, ma in attuazione del principio costituzionale di solidarietà sociale nella conduzione della vita economica del Paese. Ben vengano le privatizzazioni qualora portino maggiore efficienza o un miglioramento della qualità dei servizi, a patto di non sottrarre totalmente al controllo collettivo scelte che recano un impatto non trascurabile sui cittadini tutti e in particolare sugli utenti dei servizi. Nulla rileva che a gestire un servizio sia un privato cittadino, quando egli soggiace a regole trasparenti ed è data agli utenti – che del resto non sono affatto in una posizione di parità con il gestore – la tutela, la protezione, del dritto pubblico.
Del resto, il minimo comune denominatore degli scenari da incubo di Black Mirror non è la tecnologia, ma la libertà illimitata in mano ai singoli che non si autolimiteranno in nome della felicità o sicurezza dei loro consimili.

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