Le riforme di Xi Jinping e lo Stato profondo cinese

A cura di Simone Pasquini

 

 

“L’Imperatore che mi ha preceduto è stato assassinato solo per aver detto che avrebbe voluto riformare l’Impero. Vediamo se uccideranno anche me, che voglio riformare la Città proibita.” Così parla l’ultimo imperatore della Cina, Aisin-Gioro Pu Yi, interpretato magistralmente da John Lone nel film capolavoro di Bernardo Bertolucci “L’Ultimo Imperatore”. Noi occidentali siamo abituati ad immaginare l’Oriente come la quint’essenza dell’autocrazia, dove il governante tutto può e tutto possiede. E questo tipo di organizzazione ci sembra sostanzialmente immutato con l’attuale regime comunista, dal cui vertice Xi Jinping plasma la Cina secondo la sua volontà.  La citazione, tuttavia, aiuta a comprendere la vera realtà delle cose, una realtà che affonda le sue radici ben 2000 anni fa.

La nascita dell’Impero cinese (il “Regno di Mezzo”) avviene nel 221 a.C. grazie alle campagne militari condotte dal Qin Shi HuangDi, sovrano del Regno dei Qin Occidentali. Una perfetta macchina bellica basata sulle teorie legalistiche del potere e sostenuta da una schiera di funzionari-burocrati, quelli che poi saranno conosciuti in Occidente come “mandarini”. Questi uomini trasmettevano il volere centrale dal centro dell’Impero alla periferia, fino al punto di “mediare” (o in certi casi modificare) le stesse disposizioni dell’Imperatore: era un assolutismo burocratico, come lo ha definito il sinologo tedesco Kai Vogelsang. “Ah, – sospirò una volta un imperatore cui i ministri negarono un’uscita a cavallo, – sono venerato come Figlio del Cielo, ma non posso decidere nulla da me!”

 

Oggi troviamo la stessa struttura all’interno della repubblica Popolare. Solo che, al posto dei mandarini imperiali, vi è un esoscheletro di 90 milioni di iscritti al Partito comunista che, in un sistema definibile a cerchi concentrici, senza soluzione di continuità tiene insieme tutta la società, dalla grande metropoli fino al remoto villaggio rurale. Mentre in Occidente l’amministrazione è un “pezzo” dello Stato, in Cina amministrazione e governo si sovrappongono: tutti i ruoli di un qualche rilievo non hanno un accesso elettivo o concorsuale, ma vengono assegnati tramite nomina personale all’interno del Partito. Si tratta però di una struttura fondamentalmente chiusa alla maggioranza della popolazione, con dinamiche interne poco limpide e nella quale i singoli funzionari hanno un interesse personale a comunicare alle Commissioni del Partito le informazioni che ritengono più opportune. Appare chiara dunque la grande importanza che per Xi rivestono le riforme anticorruzione, che fanno parte però di un più ampio progetto di riforma del sistema cinese, volto allo spostamento del potere reale dall’apparato burocratico verso il vertice politico (ossia lui stesso).

 

Ovviamente, non bisogna credere che questo enorme apparato sia disposto ad accettare passivamente questi cambiamenti. Quando alla fine degli anni ’70 il grande riformatore Deng Xiaoping lanciò il suo programma di riforme economiche non dovette confrontarsi con resistenze da parte di questi apparati poiché essi (o meglio, i funzionari che rimanevano) erano i fortunati superstiti delle purghe maoiste e della follia generalizzata della Rivoluzione culturale, che avevano spazzato via quei pochi interessi e privilegi che erano riusciti a raccogliere nelle loro mani. Ora, invece, Xi deve confrontarsi con una casta di burocrati arricchiti da quelle stesse riforme e che sono pronti a difendere con le unghie e con i denti il proprio orto. Come è facilmente intuibile, questo sistema sul lungo termine è anche foriero di instabilità, dovuta ad una doppia contrapposizione: da un lato, i cittadini comuni vengono nettamente distinti (fin negli aspetti più concreti della vita di tutti i giorni) da coloro che possono fieramente esibire la tessera del Partito; dall’altro, c’è competizione fra gli stessi elementi interni al Partito, le cui schiere inferiori fanno continuamente pressione sulla grande aristocrazia ai vertici del Pcc.

 

Un utile strumento nelle mani di Xi è quello che noi consideriamo un elemento fondamentale di qualsiasi regime autoritario: l’esercito.

Nell’ordito gerarchico del Paese l’Esercito Popolare di Liberazione svolge un ruolo determinante fin dai tempi della presidenza di Mao, “condividendo” il potere reale con lo Stato e il Pcc. Vi era dunque una dialettica costante fra questi tre attori, che è stata completamente ribaltata da Xi nell’arco di nemmeno due mandati. Dopo l’accentramento del potere nel Partito, il “celeste imperatore” ha condotto pesanti riforme nelle forze armate, sottoponendole (in particolare la Polizia armata del popolo, cioè la polizia politica) alle direttive degli organi di partito (di cui lui è appunto il vertice).  Così, con una sola mossa, è riuscito ad ottenere un duplice obiettivo: avere tutte le Forze Armate sotto il suo diretto controllo ed evitare qualsiasi interferenza o limitazione con gli indirizzi stabiliti dal Partito stesso. A questo si aggiunge l’abolizione del limite dei due mandati presidenziali, avvenuto con molto clamore durante il XIII Congresso del partito lo scorso marzo, cosa che permetterà a Xi di far progressivamente coincidere lo Stato con la sua persona. In definitiva, un triplice accentramento che forse renderà la sua leadership praticamente inattaccabile negli anni a venire.

 

Fonti:

“Xi, Partito, Stato. La nuova verticale del potere cinese” di Giorgio Cuscito

“In Cina lo Stato si specchia in sé stesso” di Francesco Sisci

“Cina. Una storia millenaria” di Kai Vogelsang

Loading

Facebook Comments Box