Breve nota sulla natura giuridica dei responsa prudentium nel diritto privato romano

di Simonetta Trozzi

Caporedattrice Responsa

 

Nella sua opera De Oratore il giurista Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) scriveva che se qualcuno gli avesse chiesto chi dovesse intendersi per giureconsulto, egli avrebbe risposto che giureconsulto era colui esperto nel respondēre, àgere, cavēre. Difatti, nel mondo del diritto privato dell’antica Roma, l’essere in grado di elaborare le formule necessarie per l’introduzione e lo svolgimento del giudizio (àgere quale agire processuale) e il padroneggiare gli schemi dei negozi giuridici per permettere ai privati di concludere i contratti più disparati (cavēre), non erano aspetti sufficienti a completare la figura dell’esperto di diritto. 

Nel contesto di un diritto, quello privato romano, caratterizzato da una componente fortemente giurisprudenziale e da una minima parte versata in norme scritte e in principi codificati, il ‘rispondere’ concepito come attività del giurista, volta a risolvere un dato problema a lui sottoposto, era un dovere civico oltre che fondamento della propria professione. L’attività del respondēre consisteva nell’analisi del caso concreto per addivenire all’elaborazione della regola giuridica dotata di autorevolezza, in quanto soluzione resistente alla prova ripetuta dei fatti.

In queso contesto i responsa erano opere essenzialmente di casistica, cioè risposte date dai singoli giuristi in ordine a problemi pratici sottoposti al loro esame. Essi costituirono fondamentale strumento di produzione ed interpretazione del diritto

Come ci riferisce Pomponio (115-? d.C.), in periodi storici a lui antecedenti, i giuristi scrivevano loro stessi ai giudici o coloro che li avevano consultati erano testimoni presso i giudici del responso ricevuto. Inizialmente il fatto che il giudice accogliesse i responsi del giureconsulto quale soluzione della controversia a lui demandata derivava esclusivamente dalla persuasività del loro scritto. Bisogna ricordare che l’impatto dei responsa non si limitava al rapporto giurista-pretore, in quanto il lavoro della giurisprudenza poteva essere utilizzato da parte del giudice in altre controversie. Inoltre, la funzione di consulenza creativa dei prudentes non si limitava ai giudizi formulari in quanto i loro pareri giurisprudenziali potevano guidare l’attività dei magistrati che dirigevano i processi tra privati secondo le forme delle cognitiones extra ordine. Infine, i responsi venivano anche considerati dagli imperatori.

E’ con Augusto (63 a.C.-14 d.C.) che accanto a questo tipo di responsi, vennero introdotti i responsa signata, ossia quelli sottoscritti da giuristi ‘patentati’, i prudentes, investiti unilateralmente dal princeps del beneficium di pronunciarsi con autorevolezza dirimente in ogni lite (c.d.. ius pubblice respondendi ex auctoritate principis). Gli iuris periti, dunque, in virtù di una autorizzazione imperiale, emettevano pronunce aventi stessa forza delle leges e interpretando i mores, determinavano la regola sociale di riferimento cui il giudice doveva attenersi. 

Secondo uno scritto del giurista Gaio (?-180 d.C.), che richiama un rescritto dell’imperatore Adriano (76-138 d.C.), il giudice riacquistava la libertà di decidere autonomamente solo in caso di dissenso tra due o più opinioni, entrambe assistite dallo ius respondendi

In sostanza, nel mondo del diritto dell’antica Roma, esistevano due giurisprudenze. L’una, quella dei prudentes scelti dal princeps, con la quale si mettevano al sicuro un insieme di soluzioni normative univoche e non derogabili. L’altra rimessa al giudice e costituente ius controversum

Lo ius respondendi durerà fino alla metà del secondo secolo, quando si creeranno le condizioni istituzionali per una nuova giurisprudenza tutta interna all’organizzazione del principato, che si sostituirà a quella dei prudentes. Sarà il consilium principis, del quale entreranno a far parte alcuni giuristi, che dirigerà l’esercizio della giurisdizione imperiale e ne fisserà i principi.

Il Digesto o Pandette (promulgato il 16 dicembre 533 d.C.) – quale raccolta dei brani dei giuristi classici cui è stata attribuita la patente di diritto ufficiale – è testimonianza di quanto la componente della giurisprudenza dei prudentes prima, e dei giuristi del consilium pincipis poi, sia stata fondamentale nel contesto del diritto privato romano.


 1. Responsum non è la sola parola che lo stesso Cicerone usava per descrivere le soluzioni normative proposte dai prudentes. Usati dal giurista erano anche il termine consilium e la locuzione sentenzia et opiniones.

2.  Già dall’età di Cesare (100-44 a.C.), i giuristi realizzarono antologie ragionate di testi giuridici che chiamavano Libri Digestorum o Digesta. Queste opere nascono nella forma di raccolta di responsi, con tutta probabilità all’interno della cerchia degli allievi del giurista Servio Sulpicio Rufo (104-43 a.C.). Il giureconsulto infatti rispondeva ai quesiti in materia di diritto in maniera “eccedente” il caso prospettato, spiegando anche come trattare i casi simili. Tra i Digesta che ricordiamo, a titolo esemplificativo, vi sono quelli dei giuristi Alfeno Varo (metà I sec. a.C.)  – della cui raccolta alcuni frammenti sono riportati anche nelle Pandette , di Claudio Trifonino (II sec. d.C.) e di Salvio Giuliano (110-170 d.C.).

 

 


BIBLIOGRAFIA 

 

BRUTTI M., Il diritto privato nell’antica Roma, Torino, Giappichelli 2015.

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