Al confine della legalità – Confronto con il Presidente della Commissione Antimafia dell’Ars

di Elena Mandarà-

Al termine della conferenza stampa sulla relazione della Commissione antimafia dell’Ars in merito alle infiltrazioni mafiose nel mercato ortofrutticolo di Vittoria (RG), uno dei maggiori centri produttivi del settore in Europa, abbiamo avuto il piacere di intervistare il Presidente della Commissione, l’On. Claudio Fava. 

“Una cosa è la mafia, un’altra la mafia dell’antimafia e un’altra cosa ancora è la lotta alla mafia”, citazione del libro “Buttanissima Sicilia” di Pietrangelo Buttafuoco, che racchiude una verità dolorosa: il ruolo degli esponenti dell’antimafia in Sicilia è sempre stato controverso, ed il fine ultimo delle loro azioni si è spesso rivelato essere il perseguimento di interessi personali, piuttosto che la lotta concreta al fenomeno mafioso. Lei, in qualità di Presidente della Commissione Antimafia dell’Ars, come ha inteso muoversi? 

La Commissione Antimafia è una risorsa istituzionale importante, se bene utilizzata. La sua attività deve essere volta ad approfondire ed evidenziare interferenze, contraddizioni e turbative che rendono i processi amministrativi e politici poco limpidi, ad individuare le cause della corruzione, a dare, insomma, un contributo fattivo, che non si sovrapponga, ma si affianchi al lavoro svolto dalla magistratura. Insieme agli altri membri della Commissione mi sto muovendo proprio in questa direzione, allo scopo di rimuovere questa patina di immunità e di inutilità di cui è ricoperta quella “falsa antimafia” a cui facevi riferimento. Autoreferenziale, coreografica e molto furba nel porsi come l’unica antimafia possibile. È quella che abbiamo conosciuto, ad esempio, nella vicenda del Dott. Montante (ndr ex Presidente di Confindustria in Sicilia, condannato a 14 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione). La relazione Montante fatta dalla Commissione racconta un sistema politico-mafioso malato, di cui l’antimafia era il salvacondotto. Un sistema che sfruttava l’antimafia come strumento per garantire carriere politiche, impunità e affari imprenditoriali. Un altro esempio del nostro lavoro, è dato dall’indagine sull’attentato Antoci (ndr. Ex Presidente del Parco dei Nebrodi, vittima di un presunto attentato di mafia fallito). Mossi dalla convinzione che intorno a quella vicenda ci fosse un cumulo di ombre che nessuno aveva provato a dissipare, abbiamo portato avanti un lavoro faticoso, soprattutto per le reazioni polemiche e ostili che ha suscitato. La Commissione ha provato a dimostrare che c’è sia il dovere di farsi qualche domanda in più su alcuni episodi che, piuttosto che attentati di mafia, sono stati veri e propri strumenti per costruire carriere. Stiamo lavorando, insomma, per restituire l’antimafia alla sua vocazione originaria, ossia quella di offrire strumenti di indagine e ricerca della legalità, in un tempo in cui la parola legalità diventa sempre più merce rara.

Nel corso del suo intervento ha più volte fatto riferimento all’importanza del ruolo della comunità nella lotta al fenomeno mafioso. Concretamente, cosa dovrebbero fare i cittadini?

In realtà come quella di cui abbiamo parlato oggi, ossia di Comuni che hanno vissuto lo scioglimento per mafia -ad esempio- il primo passo sarebbe quello di affiancare il lavoro svolto dai Commissari sulla bonifica amministrativa e burocratica. Non solo qui, ma in tutte le realtà accomunate da questa situazione, si riscontra invece una sorta di “animosità” di una parte della comunità, che considera lo scioglimento uno sfregio alla propria dignità, più che un’opportunità per recuperare la legittimità democratica. Ciò che offende una comunità, però, non è tanto l’atto dello scioglimento, quanto le cause che lo hanno determinato. 

In certi casi, però, quelle stesse istituzioni che avrebbero il compito di traghettare la comunità verso la “normalità”, restituendole un apparato amministrativo sano, si limitano a tacciarle come “irrimediabili”. Il dialogo non dovrebbe partire proprio dale istituzioni?

Assolutamente sì. Chi si trova a gestire un Comune sciolto per mafia riveste un ruolo di grande responsabilità, che non consiste soltanto nel riportare alla legalità i meccanismi amministrativi, ma anche nel ricostruire un ponte ideale e civile con la comunità. Questo, però, passa anche a attraverso  gli elementi caratteriali, il rapporto con media e con l’opinione pubblica. In ogni caso, è indispensabile partire dalla premessa di cui parlavo prima: lo scioglimento non è uno sfregio, ma rappresenta per la cittadinanza l’opportunità di poter nuovamente scegliere una rappresentanza politica libera da condizionamenti mafiosi. Bisogna cogliere questo aspetto per poter poi costruire un rapporto più utile e produttivo con i commissari chiamati a gestire il Comune. Il commissariamento è comunque un evento temporaneo, terminato il quale sono i cittadini a dover scegliere a chi attribuire il potere di rappresentarli, ed è imprescindibile che si parta dall’idea che sia uno strumento utile perché esplichi effettivamente dei buoni risultati.

 

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