Special Purpose Acquisition Company – Analisi del veicolo d’investimento e della sua dinamica applicativa nell’Ordinamento interno ed eurounitario.

Del Dott. Antonio Di Ciommo, in collaborazione con i prof. Andrea Palazzolo e Gustavo Visentini

La Special Purpose Acquisition Company è un veicolo di investimento dalla particolare conformazione dell’oggetto sociale: essa nasce per opera di un gruppo di promotori (contemporaneamente – e tendenzialmente – soci fondatori e amministratori della società) con l’intenzione di acquisire una realtà produttiva già esistente mediante tutte le possibili forme che il nostro ordinamento pone per realizzare una tale operazione. L’acquisizione è, però, solo una particolare fase di un “oggetto sociale di fatto” ben più complesso di quanto non appaia: l’acquisizione, in sé considerata, deve essere compiuta con l’ulteriore finalità di “integrare” in sé la realità produttiva acquisita, cioè di realizzare un’attività produttiva più complessa e valorizzata rispetto a quella inizialmente acquisita. L’acquisizione può essere realizzata in due forme: l’individuazione di una singola realtà produttiva cui dirigere i propri sforzi o la modulazione di una strategia più complessa volta all’individuazione di realtà produttive autonome e non integrate che siano tra loro complementari per realizzare un complesso di operazioni tale da rendere le varie realtà non più autonome tra loro e realizzarne un’unica e più efficiente impresa.

Quanto descritto è il fine-scopo della SPAC. Prima che sia possibile l’attuazione di una simile acquisizione, il veicolo deve soddisfare un primario fine-mezzo, cioè deve eseguire una raccolta di risorse che soddisfi le esigenze “economiche” che i promotori non possono fronteggiare da soli. La SPAC, infatti, è una società-veicolo ontologicamente rivolta al conseguimento dell’ammissione a un mercato dei capitali, in modo tale da realizzare la raccolta delle risorse necessarie alla realizzazione dell’acquisizione programmata.

La raccolta di capitali della SPAC, (rectius, dei suoi progenitori shell company e blank cheque companies), ha posto, sin dall’inizio, un problema di moral hazard nel mercato di origine di questi veicoli, gli Stati Uniti: dato l’ambiente normativo e le caratteristiche proprie delle prassi dei mercati finanziari statunitensi, l’instabilità e le manipolazioni attuate dai promotori di shell companies e blank cheques hanno portato ad una profonda regolamentazione che ha comportato l’imposizione di un sistematico utilizzo (con finalità protettiva per gl’investitori) di trust o escrow account per l’esecuzione dei conferimenti, in modo tale da evitare che i promotori avessero libertà assoluta nel disporre delle risorse raccolte, così da vincolarle alla sola operazione che i soci investitori avessero deciso in assemblea. Queste regole protettive sono state recepite dalle prassi e dai mercati borsistici e finanziari dei Paesi che hanno inteso “importare” questo particolare modello d’investimento, ma il recepimento della SPAC non ha sempre coinvolto l’ordinamento di rango primario dello Stato d’importazione.

Il caso italiano rientra in quest’ultimo schema: l’ordinamento di rango primario (o regolamentare) non ha ancora riconosciuto e definito espressamente il modello di investimento offerto dalla SPAC; l’unica eccezione a questa affermazione è costituita dal Regolamento sulla Gestione Collettiva del Risparmio emanato nel 2015 dalla Banca d’Italia, in cui è stato espressamente definito solo un generale modello di investimento, aderente a quello della SPAC, al fine di esplicitare che l’attività di veicoli costituiti in Italia o all’estero, il cui oggetto sociale, le possibilità operative e la capacità di indebitamento fossero statutariamente limitate al solo scopo di dare veste societaria a singole operazioni di raccolta o impiego e che fossero destinati a essere liquidati una volta conclusa non costituissero forme di gestione collettiva (e, conseguentemente, i veicoli suddetti non costituissero ipotesi di FIA). La definizione, però, non offre nessuno spunto per definire l’attività della SPAC specificamente, né sembra prestarsi ad ulteriori finalità rispetto a quella di chiarire l’ambito di una disciplina diversa, anche se in stretta relazione con il veicolo stesso.

 

La SPAC ha creato incertezze nell’ordinamento societario in rapporto alla sua struttura: il sistema della SPAC, come anche riconosciuto dai regolamenti dei mercati in cui sono ammessi, prevede, come primo punto essenziale, l’utilizzo di negozi che realizzino una segregazione o vincoli tra conferimenti iniziali dei promotori e conferimenti degli investitori raccolti nel mercato, sì da rendere indisponibili le risorse e da finalizzarle alla realizzazione dell’operazione-oggetto. Pur non ponendo problemi il vincolo meramente statutario, non opponibile ai terzi ex art. 2384 c.c., l’utilizzo di istituiti fiduciari quali il trust e l’escrow pone rilevanti problemi di ordine interpretativo e sistematico rispetto alla funzione del capitale sociale tradizionalmente delineata nelle tre teorie del produttivismo, della funzione organizzativa e della funzione di garanzia per i creditori. Infatti, l’utilizzo di questi negozi arriva quasi al punto di svuotare di significato l’ultima di queste funzioni, privilegiandone principalmente la funzione produttivistica. Svuotare di significato la funzione di garanzia del capitale sociale significa, però, svuotare la tutela che nel sistema domestico è offerta ai creditori sociali (e, tendenzialmente, anche uno dei fondamenti teorici della limitazione della responsabilità nelle società di capitali). Ciò crea il paradosso per cui si dovrebbero considerare leciti i conferimenti eseguiti mediante meccanismi che diano una forte garanzia dell’adempimento in seguito all’approvazione dell’operazione-oggetto e che, però, non diano disponibilità immediata delle risorse date a conferimento alla società così che la misura delle garanzie offerte ai soci investitori tenderebbe a pregiudicare le garanzie che il nostro ordinamento societario offrirebbe ai creditori che godrebbero soltanto delle residuali tutele risarcitorie ordinarie offerte dalla responsabilità da inadempimento e dalla responsabilità aquiliana: tutele che, allo stato, non risultano sufficienti, soprattutto in caso di insolvenza sopravvenuta prima del compimento dell’operazione.

Fermo restando i problemi (e le incertezze) che le particolarità organizzative della SPAC creano nei rapporti tra soci e nei rapporti tra società e creditori, la qualificazione della sua attività è di non irrilevante importanza, in quanto la sua struttura e il suo svilupparsi all’esterno assomma in sé caratteristiche riconducibili a diversi fenomeni già conosciuti dal mercato dei capitali nazionale ed europeo e dai loro ordinamenti: se l’organizzazione interna del capitale di una SPAC l’avvicina molto ad un OICR, la struttura delle prerogative e dei privilegi di cui godono i soci investitori e i promotori – con alterne sorti – avvicinano la SPAC alle Società d’Investimento; dato anche il breve orizzonte temporale imposto dal termine di scioglimento delle SPAC, fissato nel massimo a tre anni, mediante l’utilizzo di cause statutarie di recesso o delle ordinarie cause inderogabili ex art. 2437 c.c. (applicabili per la particolare natura delle operazioni condotte dalla SPAC che si traducono tendenzialmente o in una modifica dell’oggetto sociale o in una delibera di fusione) il socio investitore gode, nei fatti, di un diritto analogo al diritto di opt-out imposto dalla regolamentazione statunitense per questi veicoli e ha la stessa possibilità di esercitare la propria exit, cioè la propria fuga dall’investimento quando non dovesse ritenerlo conveniente, con il risultato che l’utilizzo di meccanismi fiduciari segregativi comporta una equivalenza di risultato, nel senso che l’investitore potrà vedersi liquidata la propria partecipazione con minori rischi di vedersi pregiudicato nel valore iniziale dell’investimento. Infine, il modo d’investire le risorse e di ricercare le imprese target avvicinano la SPAC al mondo del private equity, cioè a quell’investimento condotto in realtà produttive ad alto potenziale che si svolge con un acquisto di partecipazioni di minoranza da detenere con prospettive di medio-lungo periodo. Rispetto all’investimento eseguito da un fondo di private equity, la SPAC non si limita ad investire in partecipazioni di minoranza, ma acquista tendenzialmente una partecipazione totalitaria, puntando a realizzare l’ingresso in sé stessa dei soci dell’impresa target e, quindi, ad unire le due compagini per realizzarne una sola. Ciò è agevolato anche dal fatto che le SPAC emettono sempre le proprie azioni senza indicazione di valore nominale.

 

Per quel che riguarda i promotori, poi, il loro inquadramento non sembra agevole. Nella letteratura si usa identificare in questa figura collettivamente il c.d. management, comprendendo in esso sia i soci fondatori sia gli amministratori. Tendenzialmente, questi soggetti procedono alla costituzione del veicolo organizzando il capitale iniziale mediante le vie comuni e attribuendosi prevalentemente azioni speciali al fine di “autolimitarsi” nelle proprie prerogative di soci nella prospettiva della quotazione, salvo determinate esigenze in cui sia necessario che l’“autorevolezza”, il peso dei promotori possa trovare concreta realizzazione mediante l’attribuzione a quest’ultimi di un “diritto di veto” o di “nulla osta” in scelte strategiche per l’operazione in via di costruzione in contrapposizione alle ordinarie delibere che sia necessario adottare per la loro attuazione. Le azioni speciali, quando non siano compresenti a queste anche altre componenti come stock option e warrant di sottoscrizione, sono utilizzate con finalità anche remunerative a favore dei promotori, in quanto queste è uso che si convertano “automaticamente” secondo un rapporto fissato in misura di molto maggiore di un’azione ordinaria per azione speciale che trova fondamento, nella prassi redazionale degli statuti delle SPAC, quando siano raggiunti determinati obiettivi di andamento, raccolta o risultato aziendale. È vero che questi meccanismi, contemporaneamente di consolidamento e remunerazione, potrebbero diluire la partecipazione in capo agl’investitori, ma questa diluzione si pone come ragionevole e necessario sacrificio perché sia sempre assicurato che il peso dei promotori sia costantemente di una tale rilevanza sì da evitare che l’operazione rappresentata dal veicolo possa “deragliare” rispetto alle finalità iniziali con cui questo è stato costituito e proposto al mercato mediante con la domanda di ammissione e la pubblicazione della politica di investimento che si intenderà perseguire, deragliamento che consisterà, appunto, nell’esercizio di scelte che gl’investitori, chiamati a deliberare in assemblea, possano assumere sì da compromettere irrimediabilmente tutta la struttura dell’operazione. Quest’aspetto, cioè la capacità “orientativa” della volontà assembleare che i promotori debbono esercitare nel veicolo, è un elemento di estremo interesse per il mercato, in quanto esso è il principale elemento che, almeno inizialmente, influenza la formazione dei prezzi azionari nel mercato e, non a caso, è espressamente oggetto di valutazione anche da parte del gestore dei mercati in cui sono ammessi; ne è la dimostrazione l’obbligo di sottoporre, in sede di domanda di ammissione, anche il track record triennale dei promotori, cioè il “curriculum” delle capacità manageriali e dei risultati conseguiti dai promotori nei tre anni precedenti la costituzione del veicolo promotori nella gestione strategica di fondi o di investimenti nei mercati del capitale di rischio, in modo tale che il mercato (e, nondimeno, il pubblico) possano essere informati del grado di affidabilità che siano capaci di offrire nella conduzione delle attività programmate.

Sempre per quanto riguarda l’inquadramento dell’attività dei promotori, questa si accosta, ancora una volta alla (fino a ridursi a mera riproduzione della) attività tipica del private equity. La ricerca del target (nel senso di quell’atto di ricerca preliminare alla formulazione della proposta di business combination all’assemblea) è affidata indifferente ai singoli soci o esclusivamente ai promotori-amministratori, mentre l’attività che viene generalmente e informalmente definita scouting è atto essenzialmente degli amministratori, in quanto si traduce in una ulteriore attività di analisi, approfondimento, valutazione e determinazione delle opportunità di eseguire l’investimento e si tramuta in un’attività libera di due diligence che sfocia, prima della delibera di autorizzazione, in una trattativa con il target e in oneri informativi nei confronti dei soci, in maniera analoga a quanto deve avvenire nella Fusione, anche e soprattutto quando l’operazione-oggetto è previsto non faccia ricorso a quest’istituto, tanto è vero che sembra inevitabile, quando si voglia conseguire la menzionata integrazione anche delle compagini sociali, la fissazione di un rapporto di cambio delle azioni che rappresenta, nei casi diversi dalla Fusione, il prezzo da pagare nel rapporto di compravendita dell’azienda (o delle azioni).

L’operazione-oggetto, nota come business combination, deve essere deliberata dall’assemblea. Questa delibera, tutta interna alle vicende del veicolo, è un’autorizzazione di cui i promotori necessitano sia al fine di liberare i conferimenti dal vincolo di disponibilità (e non dal vincolo finalistico) sia per dar seguito a tutte le operazioni di integrazione tra le due entità. Nel sistema americano la delibera di autorizzazione alla business combination è considerata come un ulteriore istituto con finalità protettiva, tanto è vero che il complemento di questa necessaria deliberazione era la corrispondente previsione di un’esclusione del recesso nel caso in cui tanti soci che rappresentassero almeno l’80% del capitale deliberassero di procedere all’operazione, così da evitare che i partecipanti di minoranza potessero compromettere l’operazione strutturata e ritenuta conveniente da una parte così ampia dei soci, nonostante il loro esiguo apporto. Una simile previsione non sembra essere attuabile in nessun modo nel nostro ordinamento societario, che, infatti, configura il diritto di recesso non come una exit americana, ma come una extrema ratio al fine di tutelare il socio (assente o dissenziente, per l’appunto) da scelte che non ritenga per sé convenienti e che possano pregiudicarlo irreparabilmente nell’investimento rappresentato dal capitale apportato mediante il proprio conferimento. Seguendo questo ragionamento, la delibera si pone, quindi, come mero esercizio (e attuazione) del potere di controllo che i soci sono chiamati ordinariamente ad esercitare in funzione dell’investimento operato e dell’operazione.

 

A valle di questo procedimento, si pongono, infine, due alternative possibili: l’approvazione della business combination e il conseguente obbligo della sua attuazione in capo ai promotori-amministratori o il suo rigetto che pone due alternative: il definitivo fallimento dell’affare o una improbabile delibera di “perseveranza” da parte dei soci investitori che si tramuta in fallimento in caso di scadenza del termine. Il fallimento dell’affare comporta, di per sé, l’entrata in liquidazione e la liberazione di ritorno dei conferimenti degli investitori (in caso di utilizzo di trust ed escrow) e la conseguente procedura di liquidazione degli attivi posseduti dalla società e, quindi, delle riserve eventualmente costituite. Nella liquidazione, caratteristica comune è che i promotori, in quanto azionisti speciali, si sono postergati nella ripartizione degli attivi, in modo tale da permettere che il patrimonio residuo in seno alla società sia posto principalmente a soddisfazione dei creditori e, ancora più importante, a rimborso dei conferimenti (quando la separazione dei capitali sia interna); in caso di patti fiduciari, invece, il rimborso immediato del capitale, degli eventuali utili e riserve prodotte nel tempo intercorrente tra la raccolta nel mercato e il momento in cui si sia verificato lo scioglimento e di cui i promotori non hanno potuto far uso poiché è mancata, per l’appunto, l’operazione.

Si pone ora una domanda di fondamentale importanza per comprendere i motivi che hanno portato al concepimento di questo veicolo: è un mezzo efficiente per la quotazione e il finanziamento delle PMI?

A detta degli operatori economici, tendenzialmente la risposta è positiva, soprattutto in relazione all’ammissione all’AIM, poiché sembra prestarsi ad una maggiore sostenibilità economica del procedimento di quotazione per la sua flessibilità e per i più semplici oneri informativi, predisposti appositamente per un mercato la cui funzione è anche quella di essere istituzionalmente come mercato di crescita per le PMI.

Diverso discorso dovrebbe farsi per il segmento professionale del MIV, poiché, in quanto mercato regolamentato in piena regola, comporta un livello dei costi (economici ed umani) notevoli, sia per conseguire la quotazione, sia per mantenerla, data l’applicabilità della disciplina generale per le società quotate, quale la disciplina sulla composizione degli organi sociali (con la necessaria presenza degli amministratori indipendenti), la disciplina sui prospetti informativi e sulle informazioni regolamentate e l’essere sottoposto ad una penetrante vigilanza prudenziale della CONSOB. Lo dimostra il fatto che le dimensioni delle operazioni condotte da SPAC quotate nel MIV, prima fra tutte la business combination tra FILA S.p.A. e SPACE S.p.A., siano necessariamente ben più importanti rispetto alle operazioni condotte nell’AIM.

Ciò fornisce, indirettamente, l’indice delle dimensioni dei target e della complessità di una business combination condotta da una SPAC quotata nel MIV e da una SPAC ammessa nell’AIM, indicando, in ultima analisi, quali PMI siano eleggibili a target per l’una o per l’altra.

Oltre alla diminuzione dei costi per l’apertura al mercato, non è da dimenticare un aspetto che rende la SPAC, paradossalmente, preferibile ad una normale quotazione nei mercati regolamentati: l’apporto di risorse umane e di conoscenze tecniche per la pianificazione dell’attività.

La quotazione “più economica” offerta dalla SPAC offre in dote alla PMI target non soltanto capitali “freschi” da investire, ma anche la conoscenza tecnica di cui i nuovi soci sono portatori e apre nuove strade per strutturare e pianificare i progetti di sviluppo dell’attività imprenditoriale e realizzare in maniera più agevole l’espansione dell’attività. La valorizzazione della partecipazione è sicuramente l’aspetto maggiormente vantaggioso che la SPAC può offrire, a differenza dell’IPO in un mercato regolamentato.

Non si può non notare, però, come il fenomeno della SPAC sia un caso di cherry-picking, cioè un fenomeno che prende da più fenomeni gli aspetti più vantaggiosi, evitando o eliminando ciò che sia considerato svantaggioso: il veicolo realizza una organizzazione interna e disciplina i rapporti tra i soci come una ordinaria società per azioni, ma ha una struttura del capitale come il patrimonio di un OICR, opera nei confronti del target come una holding capogruppo, investe tendenzialmente come un soggetto appartenente al private equity.

Tipicamente, quando si attuino condotte o strutture che realizzano il cherry-picking non si può star tranquilli, poiché esso è sempre un fattore che alimenta, legittimamente, il timore di una bolla o di una instabilità del sistema. Nell’ultimo decennio, gli approcci regolamentari, europei e nazionali in ambito bancario e finanziario, hanno sempre cercato di limitare e contrastare questi aspetti e non si spiega come, nonostante le dimensioni raggiunte dalle SPAC (per quanto non ancora sistemiche) non abbiano ancora spinto il legislatore europeo e italiano a dirimere le problematiche e “lavare via quei peccati originali” di cui la SPAC si macchia nel nostro ordinamento, primo fra tutti, chiarire (per offrire) una tutela per i creditori medio tempore intercorsi tra quotazione e business combination che, ad oggi, è evidentemente insufficiente.

In sostanza, nella SPAC questo fenomeno – involontario – di cherry-picking comporta la presenza selettiva di aspetti vantaggiosi e l’assenza dei necessari contrappesi che, in un sistema di norme giuridiche, non possono mancare, pena il totale squilibrio di un intero sistema e la certezza che almeno una categoria di soggetti risulti sguarnita di adeguata tutela per le proprie legittime ragioni.

In conclusione, nonostante i vantaggi che la SPAC offre, non passano inosservate le carenze che comporta l’assenza di un espresso riconoscimento di questo modello di investimento da parte del legislatore. Si può affermare che l’insufficienza di tutela e, in genere, l’incertezza, sono lacune di cui la SPAC indubbiamente soffre. Quando queste lacune si verificano nel mondo del diritto, si realizza il dovere della società di colmarle. Non si attenda, però, che la giurisprudenza intervenga col plasmare le tutele con cui riempirle, poiché un demiurgo può fare solo male o ben poco se non vi è tra le sue mani sufficiente materia da modellare. L’intervento della giurisprudenza avrebbe solo l’effetto di certificare la necessità che la tutela e la certezza debbano colmate con una creazione del legislatore, che imponga le norme necessarie per soddisfare il bisogno di tutela verso chi oggi non ne ha o, se proprio non si voglia creare la tutela, quantomeno il legislatore deve intervenire per dare certezza, poiché essa è la madre di ogni lacuna, il primo diniego di tutela che si possa realizzare per un soggetto che, invece, ne è meritevole.

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