Politicamente scorretto e dibattito pubblico: una love story pericolosa

“We will build a great wall along the southern border.

And Mexico will pay for the wall.

Mark my words”.

16 Giugno 2015.

New York City, meglio ancora, Trump Tower.

Il suo proprietario, Donald John, annuncia quella che da noi si sarebbe definita “la discesa in campo”, citando un altro (ma nostro) grande imprenditore poi diventato a sorpresa capo del Governo. Il discorso dura 45 minuti, ma la grande proposta, quella rumorosa, quella clamorosa che farà discutere gli Stati Uniti prima, il mondo intero poi, è questa: il muro al confine messicano, meglio ancora, il muro al confine messicano pagato da loro.

In realtà Donald ne aveva già parlato più volte, ma questa è la prima volta che dichiara l’esplicita volontà di tale proposta politica, la quale, anche se molti inizialmente faticano a crederlo, è una proposta vera, reale, tangibile.

Pochi se lo ricordano, ma quel giorno, per quanto importante, rimane comunque soltanto un atto della storia, e neanche il primo.

Eppure, la storia in questione non è (solo) quella di Donald J. Trump, attuale Presidente degli Stati Uniti, e non è nemmeno (solo) quella della destra americana, del populismo, del sovranismo o stuff like that.

In realtà, non è neanche una storia recente.

O meglio, ni.

Perché quando si parla di politicamente corretto e scorretto, troppe persone ne parlano come se si trattasse di fenomeni recenti. I concetti sì, lo sono: vengono elaborati in alcune università a stelle e strisce, in particolare in Michigan, nello Stato di Detroit, alla fine degli anni ’80, allo scopo di ripulire il linguaggio comune da espressioni all’epoca usatissime e profondamente aggressive verso alcuni gruppi di individui, come il celeberrimo “nigger” per gli afroamericano o il “faggot” per gli omosessuali.

La piega, per molti aspetti eccessiva, che questa (inizialmente sacrosanta) linea di condotta ha raggiunto nel corso degli anni è a tutti nota, in particolare quando arriva una news dagli States (ma non solo lì ormai).

Ma se tutto questo è un fenomeno recente, la politica e il suo linguaggio, esistono da sempre. Ergo, anche il politicamente “corretto” e il “non corretto” esistono da sempre.

E come sempre, “politico” vuol dire tutto e niente, potenzialmente.

La politica non è solo quella di palazzo, dei partiti, non è neanche soltanto il discutere dei grandi temi, come l’aborto, il razzismo, i trattati internazionali.

Politica significa anche discutere delle strade e delle autostrade di casa propria, dei prezzi dei prodotti nei supermercati, dei rapporti familiari, e tanto altro ancora.

Ovviamente, ed è sacrosanto sia così, ognuno di noi, su tutti questi temi e sulle infinità di altri che riguardano il nostro vivere quotidiano, ha le proprie idee, che, per quanto influenzate anche dagli altri, in piccola o gran parte, sono strettamente personali e – importante dettaglio- sono espresse in modo personale.

Checché se ne dica, non esiste veramente un modo “corretto” di esprimersi, una metodologia completamente ed obiettivamente “giusta” per argomentare un concetto, qualunque esso sia, a prescindere da quanto sia sensato o aderente alla realtà. Il bello è anche questo, e come quasi tutte le cose belle, è chiaro che presenti un rovescio della medaglia.

Molti citano (troppo) spesso Voltaire con il suo “non sono d’accordo con ciò che dici, ma darei la vita affinché tu possa dirlo”.

Okay, in realtà non è una citazione di Voltaire, gliel’hanno solo attribuita, ma il concetto è quello.

Altri sottolineano in generale l’importanza dei principi di libero arbitrio, di libertà di espressione, del libero pensiero, ribadendo spesso che questi rappresentino la base della nostra democrazia.

D’altra parte, è normale sia così: l’intero sistema politico, istituzionale, culturale dell’Occidente, è ormai basato su tali pilastri da diversi secoli.

Il problema, come sempre nei grandi temi, è la domanda che viene subito dopo: dov’è la linea di confine? Fino a che punto ci si può spingere? Alcuni rispondono, sempre tenendo a mente Voltaire e affini, fino al punto in cui la propria libertà non arriva a ledere quella altrui.

Altri sono più conservativi, arrivando a considerare il limite consentito la sensibilità popolare, il sentire comune, quindi considerando il periodo storico, culturale, sociale.

Ma anche qui, la risposta non arriva mai ad un punto fermo e determinabile in toto, dato che la sottile linea rossa è spesso fin troppo sottile per essere stabilita in maniera certa e, soprattutto, condivisibile universalmente.

Facendo una capriola all’indietro, torniamo a Trump.

Il muro è stato il più forte e discusso progetto politico durante la sua candidatura alle presidenziali, ma in realtà è solo un esempio fra i tanti: piaccia o meno, Trump in questi 4 anni ha proposto e detto di tutto e di più, andando spesso fattualmente contro la realtà più basilare.                        Un esempio emblematico? Gennaio 2017, cerimonia di insediamento del Presidente, Trump sbandiera su tutti i media immaginabili l’epocale folla presente all’evento, a suo dire 1 milione e mezzo di persone, e, soprattutto, “molta più gente rispetto all’insediamento di Obama”.  Inutile dire che le foto e i dati ufficiali mostrassero tutta un’altra realtà: non più di 250mila persone presenti.

Eppure, mai una smentita, delle scuse, un passo indietro. Al contrario, la sua portavoce, in diretta nazionale, messa dai giornalisti di fronte alla realtà dei fatti, parlerà di “alternative facts”.

Il punto è che, per dirla brutalmente, chi se ne frega dei presenti alla cerimonia di insediamento. Il problema è che questo è il sistematico modus operandi di Trump, qualunque sia il tema, che si tratti di economia, immigrazione, o i continui problemi dentro il suo staff o creati dallo stesso. O del Coronavirus, per dire un altro tema oggi poco rilevante.

Certo, le situazioni vanno differenziate: la proposta del muro non è da considerarsi una evidente bugia o fake news, come il caso dell’insediamento. Ma è sempre stata, e chiaramente, una proposta irrealizzabile, non fosse per altro e soprattutto perché convincere un Paese confinante a spendere decine di miliardi di dollari per un muro che non vuole costruire senza usare la forza militare si avvicina più alla fantascienza che alla realtà. E non ci voleva la sfera di cristallo per prevedere come sarebbe andata: il Messico non ha voluto saperne di spendere anche un solo centesimo per la costruzione del Big Wall, e gli americani hanno iniziato a costruirlo a malapena, ovviamente a spese dei contribuenti.

Postilla importante: queste enormi questioni della credibilità, della decenza, del linguaggio politico non sono delle problematiche riguardanti soltanto i nuovi movimenti e le nuove pulsioni definite populiste, nazionaliste, di destra o simili. E no, il riferimento non è solo rivolto all’emergere della sinistra radicale: anzi, non si ferma nemmeno a quelle recenti realtà a loro modo uniche, come il nostro Movimento Stellare.

Ovvio, Trump su tutti, ma anche Le Pen, Bannon, Salvini, Farage e company, aiutati dalla tecnologia, dai nuovi mezzi di comunicazione, hanno portato l’asticella del termine “politicamente scorretto” verso livelli forse mai raggiunti prima, o almeno negli ultimi decenni, ma gli altri, a modo loro, con proposte loro, li hanno seguiti alla grande: i Sanders, le Ocasio-Cortez, Corbyn, Iglesias, ma anche molti moderati e centristi, in diversi Stati del vecchio blocco occidentale.

Non è importante se, personalmente parlando, si preferiscano le idee e i modi di Sanders rispetto a quelli di Trump o viceversa. Il nodo centrale della questione è che, in primis, il centro politico moderato sta progressivamente sparendo, soprattutto in America, a favore di candidati e programmi più radicali, da entrambe le parti.

Tale polarizzazione, però, non è una trasformazione avvenuta dal giorno alla notte: come tutti i cambiamenti culturali e sociali, impiega anni, spesso decenni, per mostrarsi in maniera evidente. In secundis, per quanto candidati e linguaggi siano spesso diversi ed opposti, molti elementi sono sempre più frequenti e sempre più comuni: l’aggressività, per non dire la demonizzazione, nei confronti dell’avversario, la totale opposizione a qualsivoglia compromesso che possa portare almeno a dei piccoli passi avanti; la tendenza alla demagogia spicciola, senza portare dati a favore delle proprie tesi ed opinioni, oltre a quella di presentare delle proposte irrealizzabili nella realpolitik (esempi da sinistra? L’infattibile Medicare for All di Sanders in un sistema come quello americano, o il mostruosamente costoso Green New Deal di Alexandria Ocasio-Cortez).

Ma il punto è proprio questo: quando si parla di dibattito politico (ancora, più in generale, di dibattito pubblico), il problema non consiste tanto nella necessità di non offendere la sensibilità altrui, perché questa è troppo variabile, soggettiva e fraintendibile. Per quanto sbagliato e disgustoso, non si può vietare l’utilizzo di parole come “nigger” o “faggot”, perché non si può condannare un pensiero o una parola, per quanto rivoltanti. Il problema è capire fino a che punto un tale approccio e linguaggio danneggino un dibattito pubblico sano (o almeno, volando bassi, di un livello decente), quanto il dibattito stesso possa sopportare una tale normalità, leggerezza, e soprattutto (Trump qui sale in cattedra) impunità da parte dell’elettorato, nei confronti di una comunicazione di questo tipo.

Insomma, quanto questo faccia bene alla politica stessa. Il punto non è censurare o punire penalmente o civilmente chi offende nel nome del “politically correct”, non è iniziare una caccia alle streghe per delle idee non condivisibili, inquietanti o presumibilmente pericolose. Il punto è non lasciare che diventi un atteggiamento normale, che paghi elettoralmente e politicamente, e questa sì, che è una novità degli ultimi 5 anni.

Una soluzione certa e incontestabile è probabilmente impossibile e possibilmente lo rimarrà per sempre, d’altronde non parliamo di scienza esatta. Ma rimane un fatto che una democrazia, affinchè funzioni, debba fondarsi principalmente, oltre che sulla suddivisione equilibrata dei poteri dei singoli e degli enti governativi, proprio su questo: su un dibattito pubblico sano, che si occupi dei problemi del Paese, che proponga delle soluzioni credibili, e che sia anche disposto al compromesso quando necessario con gli avversari e le controparti. Parliamoci chiaro, non è mai esistita nessuna età dell’oro: basta guardare qualunque spot televisivo dagli anni ’60 in poi per rendersi conto dei tantissimi momenti e periodi eccessivi della comunicazione politica, e nessun partito ha mai parlato usando termini dolci dei propri avversari. L’aggressività, soprattutto in campagna elettorale, in televisione e più recentemente sui social, è sempre esistita, ma è fuori da ogni dubbio che oggi abbiamo un problema in tal senso.

E, soprattutto, è fuori da ogni dubbio il fatto che oggi siamo ben lontani dal trovare una soluzione accettabile.

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