Il Grande Fratello del politicamente corretto: da Orwell a Checco Zalone

Perché, a fine giugno, Netflix ha giudicato razzista, e di conseguenza ha rimosso dalla piattaforma, una puntata del serial “Community” in cui uno dei protagonisti, asiatico, appare truccato di nero per impersonare un elfo oscuro in una partita a Dungeons & Dragons? E qual è la ragione per cui il colosso della cosmetica L’Oréal ha eliminato dai suoi prodotti le parole “fair”, “whitening”, “light”? I motivi risiedono nelle nuove tendenze della “political correctness”, movimento originatosi dal neopuritanesimo degli ambienti liberali – soprattutto – statunitensi.

Quando i primi teorici del movimento ne delinearono le linee principali, i loro scopi erano certo lodevoli: eradicare ogni forma di discriminazione o di hate speech. Ma, non diversamente da quanto accadde ai puritani, l’eccesso di zelo, unito alla difficoltà di individuare i precisi confini del concetto di “discriminazione”, sta trasformando sempre più la political correctness in una grottesca caccia alle streghe. Paradossalmente, infatti, la political correctness, pur derivando da ambienti liberali, colpisce le persone di sinistra più delle persone di destra: chi frequenta ambienti dove essa non ha ancora attecchito, infatti, si sentirà molto più libero di esprimere le proprie opinioni, quali che siano, senza temere l’isolamento dal suo gruppo sociale; timore che invece è fortemente sentito negli ambienti liberali, tenuti sotto il torchio del “Grande Fratello” del politicamente corretto.

Persino, quindi, i luoghi tradizionalmente considerati “safe spaces”, dove le opinioni dovrebbero poter galoppare indisturbate, sono ora il regno dei Social Justice Warriors, cecchini in grado di fiutare odore di razzismo e sessismo da chilometri – un po’ come le “spie” di cui scriveva Orwell. Sono spesso i giovanissimi, nutriti dalle idee espresse su social quali Twitter e Tumblr, in cui è facile mettere sul rogo della censura chi la pensa diversamente. Inoltre, spesso i Social Justice Warriors sono personaggi esterni al gruppo che si ritiene oggetto di discriminazione, il che genera un paradosso se la comunità presa di mira ha piuttosto un’organizzazione a cui fare capo in caso di necessità: esempio classico è quello della comunità LGBTQ+, la cui legittimazione è ormai sempre più riconosciuta dalle democrazie contemporanee. Oltretutto, bisognerebbe domandarsi anche se il disagio provato dalla comunità in seguito a un certo comportamento sia un disagio autentico o piuttosto un artefatto dell’ambiente politically correct in cui viviamo. A ben vedere, i disagi vissuti dai gruppi umani storicamente oggetto di discriminazione non sono affatto diminuiti in seguito alla pulizia linguistica operata dalla cultura contemporanea, che più che cultura della giustizia sociale potrebbe meglio essere definita “cultura del piagnisteo”, come ha scritto il saggista Robert Hughes nel 2003. Questo vittimismo tutto di forma, infatti, è accessoriato come l’ultimo modello di una berlina, ma senza motore: è impotente davanti a orrori come il delitto Floyd, che continuano a ripetersi proprio negli States.

È molto più facile, infatti, attaccare chi sbaglia l’uso di un pronome o fa una battuta sui pipistrelli venduti nel mercato di Wuhan, piuttosto che risolvere i problemi di discriminazione sostanziale presenti – non da ultimo – nella società americana. Perché no, neanche la comicità è lasciata fuori da questa censura da film di fantascienza: si pensi ai comici Chris Rock e Jerry Seinfeld, che hanno dichiarato di non fare più apparizioni nelle università – luoghi che un tempo agivano da finestre sulla diversità di opinioni, ma che attualmente sono i baluardi più intransigenti del pensiero unico negli States. Ma da quando, si chiede l’attore Marc Summers durante un TED Talk, abbiamo perso il nostro senso dell’umorismo e la nostra autoironia? Se, come afferma Leo Ortolani, autore di Rat-Man, l’umorismo è “spingersi sempre più in là”, creando un inaspettato discomfort rispetto alle esperienze ordinarie della vita, allora eliminare ogni fonte di “uncomfortableness” dalla comunicazione rischia anche di portare a un tramonto della comicità. E così, se anche qui in Italia a un Checco Zalone venisse vietato di far cantare “Uomini sessuali” in un locale gay al suo personaggio “troglodita”, o a un Paolo Villaggio di giocare sulla proverbiale sfortuna del ragioner Fantozzi facendogli mangiare in un ristorante cinese il cane della sua amata signorina Silvani, la libertà di espressione morirebbe nella sua forma più sincera.

È insomma tipico del vittimismo lamentarsi senza cercare una soluzione, scaricando le proprie frustrazioni su facili capri espiatori, come la lingua o la comicità, ma è proprio alle vere soluzioni che si dovrebbe invece guardare. Perché il mondo nuovo che stiamo creando si allontani dai cadaveri della libertà di opinione che autori come Huxley e Orwell hanno consegnato alla letteratura, e tenda invece a una società sostanzialmente più equa e non superficialmente più conformista.

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