A scanso di equivoci: tra la Sicilia e la Libia c’è il Mediterraneo.

a cura di Riccardo Malavolti

POZZALLO — Sul legno delle barche ammassate l’una sull’altrac’è scritto il giorno di arrivo e il numero dei passeggeri. Gli ultimi sono arrivati il giorno prima, in centosessantasei, sbarcati dalla Nave Borsini.

Sono in centoventimila dall’inizio dell’anno, i migranti giunti sulle nostre coste. Nei porti di Pozzallo, Augusta e Reggio Calabria arrivano tutti nello stesso modo: a bordo di un pattugliatore della Marina militare o di una imbarcazione della Guardia Costiera. L’operazione Mare Nostrum, voluta fortemente dopo la tragedia di Lampedusa, sta cercando di rispondere, a tratti non riuscendoci, a quella che è la più intensa ondata migratoria dagli anni novanta.E come venti anni fa si scappa dalla guerra. Come in passato dai Balcani, oggi dal Mediterraneo. Guerre che sconvolgono tutto il vicino oriente attraversando l’ intero Corno d’Africa e non solo. Si scappa da Aleppo come da Gaza, dalla Somalia come dall’ Iraq. Viaggi lunghi anni per arrivare in Europa,  sperando nel meglio. Dispendiosa e criticata, Mare Nostrum risulta attualmente l’unica iniziativa umanitaria nel Mediterraneo, mentre Madrid costruisce reti spinate nell’enclave di Melilla e Malta, forte del vicino italiano, si disinteressa.Oggi almeno i morti nel Canale di Sicilia li contiamo, a differenza di qualche anno fa quando erano solo gli arrivi ad interessare. Nonostante Mare Nostrum, cresce il macabro numero delle stragi del mare: da inizio anno 8 al giorno, da fine maggio più di 17. Sui tristi calcoli meglio astenersi, ma allo stesso tempo se non ci fosse il salvataggio in mare le vittime sarebbero decine di migliaia. Ovviamente dietro al fenomeno migratorio ci sono i conflitti armati, con ripercussioni pesanti ed immediate. E non serve andare lontano. A meno di un ora di aereo da Roma uno Stato fallito combatte contro sé stesso: tre Presidenti, due Parlamenti (uno a Tripoli l’altro a Tobruk) e una trentina di tribù che combattono fra loro e contro gli islamisti, che hanno proclamato il Califfato di Bengasi. Come se non bastasse, sono sempre più le “interferenze” dei Paesi arabi, Emirati Arabi e Egitto in primis, al fine di scongiurare una deriva oltranzista del Paese. In Libia, oggi, non c’è nessuno che possa controllare l’intero territorio, non c’è alcun numero da chiamare a Tripoli.  Il Paese è allo sbando (produce solo un quinto della sua ricchezza potenziale), gli occidentali prima, le multinazionali del petrolio poi, se ne sono andati. Resiste solo l’Eni, che continua a pompare i suoi 200-240 mila barili di greggio al giorno dai pozzi e dalle piattaforme offshore che per l’Italia significa coprire circa il 27% del proprio fabbisogno.

Resiste anche l’Ambasciata Italiana a Tripoli, anch’essa tra le ultime rimaste, l’unica tra quelle occidentali. Tutte le rappresentanze degli Stati che avevano spinto la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzò di fatto i bombardamenti sulle forze di Gheddafi (ai quali dubbiosamente si aggiunse anche un’Italia fortemente delegittimata ed avvezza, come spesso accade, a perdere la faccia in ogni occasione che imponga una scelta forte) hanno frettolosamente lasciato il Paese. Barack Obama, fresco di Premio Nobel per la Pace, non esitò un momento nello schierare portaerei e sottomarini nel Canale di Sicilia, come non esitarono di certo Parigi e Londra.

Si dovrebbe essere orgogliosi del risultato raggiunto in soli tre anni: una furibonda lotta politica, prima con strumenti (almeno formalmente) democratici, poi con i mortai. Sembra dunque che sia l’Italia l’unica rimasta in Libia in questo momento di estrema difficoltà, come sono solo le navi italiane le uniche che pattugliano il Mediterraneo, altrimenti un vero e proprio cimitero.Quella che dovrebbe essere una risorsa per l’Italia, con opportunità di investimento e giacimenti minerari, si trova nel mezzo di una guerra civile che dura da almeno tre anni e che è una delle maggiori cause dell’incessante fenomeno migratorio che si sta verificando.

Chiudono i pozzi, aprono i cantieri per sistemare meglio i barconi. All’ industria estrattiva si sta sostituendo il contrabbando di armi, di droghe e di migranti. Finalmente anche l’Europa ha deciso di intervenire per fermare l’emergenza, con l’operazione Frontex Plus, fortemente chiesta dal Ministero dell’Interno, che nell’autunno andrà a sostituire Mare Nostrum. A quanto pare si tratterà di una missione di “volontari”, dove saranno solo alcuni Stati (Francia e Spagna hanno già espresso la loro partecipazione) a mettere a disposizione mezzi, personale e bilancio. Le misure concrete saranno l’arretramento della cosiddetta “linea di intervento”, oggi troppo al ridosso delle coste libiche e la distruzione delle barche utilizzate dagli scafisti. Dunque l’intervento europeo più volte definito come risolutore si limita  ad una “ritirata umanitaria” nel Mediterraneo, che trascura invece gli elementi potenzialmente più effettivi per scongiurare un’altra Lampedusa. Si tratta di misure per definizione temporanee che non mettono a fuoco una visione a lungo termine. La possibilità di richiedere l’asilo già nei Paesi di origine dei migranti attraverso le rappresentanze diplomatiche europee nel luogo scongiurerebbe la necessità di un viaggio costoso e disumano oltre a permettere una più precisa verifica dei requisiti. In questo modo i migranti che soddisfino le condizioni potrebbero raggiungere l’Europa in condizioni di sicurezza permettendo agli Stati del Mediterraneo, in primo luogo all’Italia, di reinvestire parte del bilancio attualmente impegnato nel pattugliamento marino in una politica di regolarizzazione e di integrazione. L’iscrizione obbligatoria nelle liste di collocamento e in un corso di lingua sarebbero poi i passi seguenti. Ma la precondizione necessaria e purtroppo non sufficiente è che ritorni una sorta di stabilità politica in Libia, che frettolosamente abbiamo contribuito a deteriorare. La Risoluzione 1973/2011 del Consiglio di Sicurezza aveva autorizzato l’intervento in Libia per fermare la “guerra civile” fra i Ribelli di Bengasi e le forze lealiste di Gheddafi. L’intervento sortì il suo effetto decretando la caduta di quest’ultimo e prime elezioni democratiche dopo 40 anni. Ma poi la Libia venne lasciata sola. E se tre anni fa si trattava di guerra civile invito chiunque a definire cosa ci sia ora. Un dato è certo: le responsabilità non furono prese fino in fondo. Il contestuale deterioramento dello scenario mediorientale, con gli Stati Uniti che cercano di lasciarsi alle spalle le politiche belliciste del passato in Iraq, non sembra lasciare molta visibilità internazionale al dramma libico. Può allora essere giustificata una posizione italiana più attiva ma soprattutto  coerente non solo sul piano umanitario, ma anche su quello politico? Potrà Roma redimersi dagli errori del passato e farsi portavoce di un compromesso? In ogni caso una cosa è certa:senza una Libia pacificata e senza una precisa politica europea sull’immigrazione,ogni missione nel Mediterraneo sarà destinata al fallimento.


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