Nullità del trust interno per impossibilità giuridica dell’oggetto.

a cura di Giuseppe Venneri – 

Il trust – secondo l’Oxford Dictionary of Law, 4th Ed., Oxford 1997 – è “an arrangement in which a settlor transfers property to one or more trustees, who will hold it for the benefit of one or more persons (the beneficiaries or cestuis que trust, who may include trustee(s) or the settlor) who are entitled to enforce the trust, if necessary by action in Court. The trust, recognized originally in Chancery, is based on confidence and developed from the use; it has been described as the most important contribution of English equity to jurisprudence. The beneficiary has rights against the trustee and may also have rights over the property in the hands of others”.

Nell’attribuire una prima definizione a questo peculiare istituto, tuttavia, va tenuto sempre presente che non esiste un solo tipo di trust, ma che al contrario esistono “i trusts” e che ognuno di essi può avere caratteristiche del tutto diverse dagli altri. Non essendo, dunque, configurabile “un” diritto dei trust, dati i numerosi ordinamenti giuridici che conoscono e disciplinano l’istituto per mezzo di leggi e regolamentazioni tra loro differenti, è possibile affermare che esso costituisce un rapporto negoziale tipico della tradizione della common law che, secondo la dottrina più recente, non ha un istituto corrispondente negli ordinamenti di civil law. Da questa caratteristica, deriva la difficoltà dei giudici di civil law nell’interpretare il trust alla luce degli istituti nazionali (Tribunale di Oristano 15/03/1956, Tribunale di Casale Monferrato 13/04/1984).

Un ultimo controverso caso giurisprudenziale relativo al riconoscimento del trust nel nostro ordinamento proviene dal Tribunale di Udine che, con Sentenza del 28 febbraio 2015, ha sancito che i trust interni non possono essere riconosciuti dal nostro ordinamento e i relativi atti di costituzione devono essere dichiarati nulli per impossibilità giuridica dell’oggetto. Il giudice in questione fa riemergere il dibattito sull’efficacia della Convenzione dell’Aja sui trust del 1° luglio 1985, ovvero se essa sia solo una norma di diritto internazionale privato o anche una legge di diritto materiale uniforme.” La tesi del giudice di Udine, in altri termini, porta a concludere che se un inglese (o un italiano) istituisce un trust a Londra (con trustee inglese o italiano) attribuendogli beni siti in Italia, non c’è problema; e che se invece lo stesso soggetto istituisca lo stesso trust con gli stessi beni, ma faccia il tutto in Italia anziché a Londra, ciò non sarebbe possibile perché l’atto istitutivo sarebbe nullo. Una conclusione abnorme”  (Angelo Busani – Il Sole 24 Ore).

I motivi della decisione sono riconducibili ad una particolare interpretazione dell’art.13 della Convenzione dell’Aja elaborata dal Tribunale: “L’art. 13 della Convenzione, affermando che Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione, dovrebbe stare a significare che [i Paesi] restano liberi di riconoscere o meno i trust interni. Secondo il citato orientamento dottrinale e giurisprudenziale [tale potere di riconoscimento dei trust] non sarebbe riservato a un’iniziativa del legislatore ma sarebbe demandato al giudice, investito del compito di verificare la meritevolezza o meno del singolo trust”.

Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 13 “Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”.

Secondo l’interpretazione data dal Tribunale di Udine, la libertà, consentita dalla Convenzione dell’Aja ai vari Paesi, al riconoscimento del trust interno non è riservata ad una iniziativa del legislatore, ma è demandata al giudice, investito del compito di verificare volta per volta ed esaminando le caratteristiche del caso concreto (la “causa concreta” del negozio) la meritevolezza o meno del singolo trust. La dottrina maggioritaria e le altre pronunce giurisprudenziali che hanno preso posizione sul punto ritengono che l’art.13 sia rivolto ai giudici (secondo quanto indicato anche nei citati lavori preparatorî), e che attribuisca loro il potere di non riconoscere un trust interno (quello cioè che non ha alcun elemento di estraneità rispetto all’ordinamento italiano, se non quello della legge applicabile scelta dai soggetti disponenti) non per il solo fatto di essere “interno”, ma solo in presenza di valide e forti ragioni, che vanno al di là del rilievo sommario secondo cui il trust, essendo “interno” non deve e non può essere riconosciuto, il che confliggerebbe, per non dire d’altro, con la libertà di scelta prevista all’art. 6 della Convenzione (che, come visto, è il cardine della Convenzione).

L’art. 13 viene dunque correntemente interpretato come “norma di chiusura”, la quale consente al giudice di non riconoscere il trust regolato da legge straniera nel caso in cui il giudice ritenga ugualmente il trust non meritevole di riconoscimento in quanto realizzi un “abuso di diritto”, venga utilizzato “in frode alla legge”, o comunque realizzi effetti valutati dal giudice ripugnanti all’ordinamento in cui dovrebbe essere riconosciuto.

A tal proposito, è interessante richiamare il Rapporto di von Overbeck, secondo cui “The option offered by article 13 is open to the judges of all the Contracting States, but it is clear that it is in fact an escape clause in favour of States which do not have trusts. The clause will be used above all by judges who think that the situation has been improperly removed from under the application of their own laws. But it might also be utilized by the judge of one State which does not have trusts as a matter of solidarity with another State, which also does not have them and to which the situation is objectively connected”.  Sebbene quest’analisi possa apparire prima facie coerente con quanto stabilito dalla sentenza prima riportata, è doveroso precisare che il giudice è tenuto a rimanere soggetto alla legge, in linea con il principio di legalità. L’esercizio di tale potere non può, quindi, trasformarsi in arbitrio, nonostante un margine di discrezionalità (limitata dalla lettera della legge) è comunque da riconoscersi al giudice, nell’ambito della valutazione circa la meritevolezza da riconoscere al trust così come istituito.

Alla luce di ciò, non sembra condivisibile la conclusione cui è pervenuto il Tribunale di Udine. Pur volendo accettare l’adesione alla teoria minoritaria circa l’interpretazione del più volte citato art.13, non appare contestabile il fatto che l’Italia, ratificando la Convenzione dell’Aja, abbia fatto diventare norma di legge interna il principio per il quale il trust (quale delineato dalla Convenzione stessa) “ha diritto” di nascere, di esistere e di operare in Italia. E’ la stessa Convenzione, infatti, a dare una definizione legale di trust (art.2: “il trust è un rapporto giuridico istituito da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge”) e sembrerebbe improprio attribuire al giudice il potere, dai limiti indefiniti, di valutare la meritevolezza del trust, al di là delle “estreme” ipotesi di abuso di diritto o fine fraudolento, ogni qualvolta si trovi dinanzi ad un negozio giuridico avente le caratteristiche ora riportate.

In conclusione, non resta che augurarsi un ulteriore consolidamento della giurisprudenza sull’orientamento maggioritario disatteso dal giudice di Udine, ma ciò rende anche necessario un pronto intervento del legislatore, finalizzato ad una più puntuale disciplina circa il riconoscimento di tale istituto affinché ciò possa giovare alla diffusione dello stesso nell’ambito dei traffici giuridici interni al nostro ordinamento.

 

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