Riflessioni di un studentessa di giurisprudenza al termine di una sessione d’esame estiva

A cura di Simonetta Trozzi 

Sul guazzabuglio del cuore umano, l’essere cittadini, Socrate e le Leggi.

Lo confesso: mi sono accostata al Diritto con titubanza. Ho sempre pensato che la materia fosse fredda, grigia, asettica. È vero, ad un approccio superficiale può sembrare che il diritto si componga di nozioni noiose e apparentemente utili solo ai tecnici del settore.

Ma – parlo a chi probabilmente ancora non ha trovato la risposta a questa osservazione – vi assicuro che basta un attimo di consapevolezza per recuperare la motivazione, per vederci chiaro e perché no, riprendere il fiato e continuare la salita anche durante una sessione d’esame. Proprio durante una sessione d’esame estiva!

Parlo di quell’attimo in cui ci si rende conto che dentro quelle leggi, dentro quelle sentenze ci sono i diritti e i doveri miei e tuoi, gli interessi pubblici e privati, gli interessi individuali e collettivi. C’è la società in cui viviamo, la sua civiltà, le sue abitudini, le sue debolezze e le sue conquiste. C’è l’Europa in costruzione, quella di cui si anela la costituzionalizzazione. C’è il nostro patrimonio culturale, artistico e ambientale. Insomma, c’è la nostra Storia.

Ma -cosa ancor più bella- c’è l’uomo con la vita di tutti i giorni. È indubbio: è una sensazione particolare arrivare a concepire il diritto come uno scandaglio della quotidianità e -se vogliamo- della Storia. Ed è ancora più entusiasmante leggere il mondo da questa angolazione, avere tra le mani una lente con cui approcciarsi all’altro e a tutte le eterogenee situazioni che ciascuno di noi si trova a vivere. In fin dei conti, il Diritto – tra le tante cose al di là del tecnicismo – è proprio uno degli strumenti per rapportarsi alla quotidianità. E dopo tanta ricerca posso dire di essere riuscita a concepirlo così. O meglio: mi si è rivelato prima facie in questi termini.

Ma non banalizziamo: il Diritto è anche qualcosa di più.
Per chi come me è un’inguaribile romantica e ha una certa simpatia per la letteratura studiata al liceo la Costituzione e le leggi diventano un campo di ricerca privilegiato. Penso ai volti dell’amore e alla legislazione relativa.
L’ “eros” o amore di coppia inteso in senso stretto dal nostro ordinamento come quello uomo – donna: penso alla famiglia e alle sue esternazioni sancite dagli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, l’amore elevato a dignità di rango costituzionale e a tutta la legislazione codicistica. Ma non solo, tra le risonanze giuridiche dei gesti e delle parole d’amore c’è il momento in cui si passa dal territorio delle emozioni a quello delle responsabilità anche senza una diretta volontà dei partners di sancire il proprio rapporto con il matrimonio sia civile che religioso; il momento in cui si passa dall’io al noi. Ed ecco che il legislatore ha considerato anche l’amore inteso anche come convivenza, fidanzamento e famiglia di fatto.
Ma anche l’amore usurpato: mi riferisco alla disciplina penale dello stupro e non solo.
E poi c’è l’ “agàpe” ( l’amore gratuito ) e le sue esternazioni: e penso alle liberalità e alle donazioni.
Insomma: l’amore.

E in un certo senso dinanzi a questo guazzabuglio del cuore umano sempre attuale ieri come oggi, oggi forse più di ieri al passo con l’evoluzione dei costumi e dei paradigmi della civiltà occidentale, è il diritto che districa la matassa.
Ma non sempre. Le frontiere dell’amore tra persone dello stesso sesso – come molti sanno – sono state oggetto di un tentativo di sdoganamento in via pretoria ma con pochi successi. Molti – come me – potrebbero chiedersi cosa c’è di giuridicamente ostativo a questo riconoscimento nel nostro ordinamento. E si potrebbe riflettere sul fatto che oltre oceano si sancisce il diritto alle nozze tra persone dello stesso sesso ma non l’abolizione della pena di morte. In questi termini alcuni potrebbero trovare un’attenuante a questo imperante deficit che caratterizza il nostro Paese in un’età che – a ragione – viene definita età dei diritti.

A questo punto sarebbe lecito obiettare che troppo idilliaco è ridurre l’applicazione del diritto a queste osservazioni. E lo accetterei soprattutto da parte di tutti coloro che escono da una sessione da cui avrebbero voluto essere svegliati solo al termine perché intenti a preparare uno degli scogli del nostro percorso accademico, magari una procedura. Allora in questo percorso che potremmo dire divulgativo della materia spero di non deludere nessuno nel trattare un’ altra componente antropologica del diritto, connaturata all’uomo come essere sociale in senso aristotelico.

Parlo dell’aspetto che forse è il più affascinante; esemplificative di questo discorso sono due eloquenti storie.

La prima è la storia di Pasqua , la seconda è quella dei migranti che attraversano l’oceano.

Come molti sanno Pasqua è l’isola polinesiana celebre per i suoi 397 megaliti raffiguranti giganteschi ed enigmatici tronchi umani. Nel primo millennio era una terra fiorente, ma quando vi giunsero i primi navigatori europei la trovarono desolata, probabilmente a causa dell’imprevidenza e del gigantismo dei cittadini. Infatti, la volontà di innalzare statue sempre più alte per affermare la propria potenza politica rispetto a quella dei predecessori causò una grande deforestazione che porto’, per assenza di cibo, all’antropofagia.

Pasqua è un monito. Non parla soltanto di polinesiani di un millennio fa. Ma parla di noi. Ogni generazione ha pensato solo al proprio tornaconto, ha agito politicamente solo per questo. O si potrebbe dire, non ha agito politicamente in senso proprio.

La storia dei migranti raccontata da Calamandrei è una provocazione anch’essa, cela una morale simile alla precedente : la connaturazione della politica alla società è indispensabile per la sua esistenza – sopravvivenza. Calamandrei punta il dito contro l’indifferenza alla politica e all’esistenza passiva in società.
L’aneddoto è breve: quando il bastimento su cui viaggiavano i due contadini sta per affondare, un compagno sveglia l’altro. “Beppe, se continua questo mare il bastimento fra mezz’ora affonda”, ma Beppe risponde : “ Che me ne importa, non è mio!”

Si tratta di due storie che dovrebbero smuovere gli animi di amministratori, studenti e cittadini tutti. Per me è stato così. Si tratta di aneddoti che danno conto del fatto che la Costituzione, con i suoi diritti non è una “reliquia chiusa in una teca” come il Presidente della Repubblica Mattarella ha affermato in occasione dell’anniversario del 25 aprile; “non è una macchina che una volta messa in moto cammina da sé”, perché si muova è necessario ogni giorno metterci dentro l’impegno e la propria responsabilità consistente nella partecipazione costruttiva alla polis adoperandosi nel proprio piccolo (per dirla con Calamandrei).
In un certo senso il discorso, come disse qualcuno è: avere le mani pulite, se poi si tengono in tasca non serva a nulla. Anzi, è un danno. E questo mi sembra un discorso universale non solo per gli addetti ai lavori del campo giuridico.
In ultima analisi: “Non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Questa la morale.

Scrisse Don Lorenzo Milani in una delle sue Lettere “ Io so che se i miei ragazzi apprenderanno, vivendola sulla propria pelle la passione per i diritti e per i doveri, sapranno essere non solo buoni ingegneri, medici o operai, ma anche lavoratori e cittadini onesti.”.
E in questo io credo indipendentemente da qualsiasi appartenenza politica: credo nel valore della consapevolezza dei propri ed altrui diritti e doveri. A partire dal diritto – dovere all’istruzione e al lavoro. E’ una condizione per essere cittadini di questa società liquida ( per dirla con un filosofo contemporaneo ); ma non solo, anche per essere cosmopoliti lì dove non basta più parlare di patria e bisogna guardare all’altro come cittadino del mondo.

A conclusione di questo discorso – spero non me ne vogliate – non posso omettere di fare un cenno a quella figura che probabilmente per molti è stata la prima rivelazione dello Stato e dell’essere cittadini: il filosofo Socrate, nei termini in cui Platone ce ne tramanda la dottrina filosofica nei suoi scritti; Socrate è la personificazione di una idea il cui senso ultimo probabilmente risiede nel suo gesto di rifiutare di fuggire dalla prigione per sottrarsi al giudizio della città, come gli aveva proposto il suo discepolo Critone. Il discorso delle Leggi è eloquente su questo punto.
Sono convinta che quella è stata una scelta che sottendeva una consapevolezza senza tempo: essere un cittadino con diritti e doveri; la consapevolezza che ogni cittadino ha un obbligo nei confronti della Legge (oggi potremmo dire la Costituzione) a cui deve obbedire perché è grazie ad essa che trovano realizzazione i suoi diritti e quelli degli altri. Fuggire avrebbe significato diventare barbaro e perderli. Egli è morto per il rispetto delle Leggi (e delle leggi applicate dagli uomini, cioè le sentenze), le stesse che Platone nel Critone pone a fondamento dell’esistenza della città e dei rapporti sociali.

Ma fortunatamente il rispetto delle Leggi, oggi la Costituzione, non comporta più un sacrificio estremo come quello di Socrate. E la visione dei diritti non è più quella secondo cui questi scaturiscono unicamente dallo Stato. Tutta un’altra storia.

Ma – in fin dei conti – mutatis mutandis tutto sta nell’essere consapevoli di ciò che si invoca come diritto e dovere nei confronti di un ente che ha come nome Stato ma come sostanza le persone che lo compongono. Ed essere studenti di giurisprudenza ci offre questa opportunità. Per alcuni parte caratterizzante del proprio status, per altri velleità da intellettuali. Ma sempre opportunità di ricchezza del proprio essere cittadino dell’Italia e del mondo.

Dopotutto questa materia non è così grigia e asettica. Direi proprio di no.

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