La capra

A cura di Valerio Forestieri

Breve fenomenologia di un idiota

Il sacrificio è consumato. Potete ora distogliere lo sguardo, risparmiarvi la vista: la scena è truculenta. Il capro, nell’ascendere all’altare, ha opposto resistenza: recalcitrava, gemeva, alzava miseri belati; più ferocemente, allora, si è infierito sulle carni. Ancora il cadavere spasima, non si rassegna alla mannaia; la bestia, nella stolida disperazione degli animali scannati, continua il suo rantolo penoso e volgare, che non muove a pietà, ma incattivisce. Qualche sadico l’esorta a rimettersi in piedi, sui monconi, e gode nel veder accendersi quel volto ottuso di una speranza estrema e vana.

Ad Ignazio Marino si addice l’immagine della capra: degli ovini ha l’occhio inebetito e vacuo, l’espressione beota, l’onestà specchiata. La capra, forse, non è onesta? Ruzza per il prato e bruca l’erba, scorrazza probamente: il malaffare le è estraneo, difficilmente può commettere ingiustizia. Quand’anche rubacchia un pugno d’erba, non le si ascriverà, certo, una colpa: non lo fa perché avida, rapace o mascalzona; lo fa, piuttosto, perché è scema.
Ignazio Marino, uomo onesto, è stato immolato come un capro. Vittima ingenua e caparbia, rifiutava di salire sull’ara: con vergogna ce l’hanno strascinato. Qualcuno, ora, si mostrerà compassionevole; io, invece, resto impietoso: e inneggio a carnefici, plaudo al boia, ché Marino è carne da macello, per natura ed elezione. Non che la persona, in sé, sia spregevole; tuttavia il personaggio è odioso. Quale cittadino, privato, suscita simpatia; quale sindaco, livore. Egli incarna un tipo d’uomo particolarmente inadeguato al pubblico governo: una finezza etimologica ve lo rende refrattario. Marino, infatti, è un bravo cristo, però è idiota: del politico rappresenta l’antitesi immediata.

Poche benemerenze gli sono attribuibili, una soltanto è inopinabile: a Marino va riconosciuto il merito di un fallimento totale e indecoroso. Epigono di una lunga tradizione di sconfitti, Marino subisce la disfatta irriducibile: lascia sul campo, insieme alla fascia comunale, anche la credibilità della brigata. Egli è, invero, la riproposizione arlecchinesca di ogni mito di sinistra; s’è fatto, entrando in politica, un bel vestito assortito e variegato: un brandello d’intellettuale, un lembo di ecologista, un frammento di moralizzatore, un brano di altruista. L’abito, di per sé, è ridicolo: eppure Marino, indossatore goffo, ha il talento di rendere anche la farsa detestabile.

Ignazio Marino è di quelli che si credono figli del popolo e il popolo li odia. Fulgido esponente di un’agiata borghesia professionale -di quella borghesia che vuole riscattarsi dalla colpa d’esser ricca- ama fingersi spartano. Quando, tuttavia, si stanca di giocare a far Catone, predilige l’ozio in riva al mare: non ad Ostia, che è lido troppo affollato, ma ai Caraibi; uomo morigerato, vi trascorre tre sole settimane.

Ignazio Marino, sebbene non sia scaltro, è persona di cultura. Da buon intellettuale progressista, disprezza il cittadino comune. L’opinione della folla è per lui totalmente irrilevante: Marino stringe la verità fra le mani, la contempla. Qualcuno lo accusa? Ignazio sorride, sbeffeggiando. Qualcuno è in disaccordo? Poverino, non capisce: i fatti son chiari, la soluzione univoca. L’anziana signora che lo contesta è da lui derisa ed umiliata (<<Signora, provi a connettere i due neuroni che ha e a farli funzionare insieme>>).

Ignazio Marino, che le ha tutte, è anche di quelli che facevano la predica: dall’alto del pulpito ci insegnava la questione morale. Non che egli avesse mai compiuto un’azione virtuosa; tuttavia c’era quell’elezione antropologica che lo rendeva, ça va sans dire, moralmente superiore. Poi l’hanno beccato ad intascarsi qualche spicciolo, una miseria: furbo, davvero, è per Marino un aggettivo inopportuno; al lettore si demanda la scelta tra ebete od ipocrita.

Alla piazza è inviso: eppure è convito d’essere un tribuno. E’ un gaffeur d’eccezione, tuttavia non ha la verve Berlusconiana. In qualsiasi cimento risulta inadeguato, ma, anziché scusarsi ed abbandonare, tira diritto. Marino, in verità, si ritrova indosso una maschera comica e persiste a fare il tragico. Non c’è tagliato per il ruolo; si è deciso, però, d’accontentarlo. Serviva un’ostia, per purificare; serviva un martire per redimere il partito: non dagli scandali, che son poca cosa; ma da un retaggio che imbarazza. Marino, che di quell’eredità è l’ultima espressione, si prestava al sacrificio: sull’altare l’hanno trucidato. Nemmeno la vittima ha saputo interpretare: nessuno, infatti, lo compiange; anzi, agonizzava in maniera così sgradevole e indecente, che le simpatie della platea son andate al macellaio.

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