Un Paese, due sistemi: dove finisce la Cina, inizia la libertà

A cura di Chiara La Monaca

Twitter: @ChiaraLaMein

(Hong Kong, uno dei più importanti centri finanziari al mondo, gode di una serie di privilegi politici, sociali ed economici che la Cina continentale non ha. Ma il suo complesso sistema politico determina inevitabilmente un esecutivo fedele a Pechino.)

Sorge il sole, Hong Kong si sveglia, e con lei la protesta di studenti e professori dell’Università di Hong Kong contro il Consiglio di Amministrazione della stessa, il quale ha respinto la nomina a vice-rettore di Johannes Chan, docente di diritto, accusato di essere vicino ai movimenti anti-regime. Inizia così una marcia silenziosa per le vie del campus contro quella che viene considerata una crescente ingerenza cinese negli affari universitari e un’inaccettabile attentato alla libertà accademica. Per comprendere l’origine delle contestate ingerenze occorre fare un passo indietro, precisamente al 26 settembre 2014, quando si tennero le prime manifestazioni di piazza contro il governo filo-cinese di Hong Kong. Ciò che scatenò le proteste fu la decisione del Comitato permanente (massimo organo legislativo cinese) di proporre una riforma sulla legge elettorale di Hong Kong, relativa all’elezione del capo del governo. Questa riforma, che inizialmente aveva l’intento di introdurre il suffragio universale, ha invece solo rafforzato il controllo centrale cinese sugli organi di governo locale, tramite l’introduzione di un organo consultivo che avrebbe indicato i tre candidati alla premiership, solo successivamente votati dai cittadini. Ma dopo essere stato eletto, il vincitore avrebbe avuto ancora bisogno di essere formalmente nominato dal governo centrale prima di assumere ufficialmente la carica. In ogni caso si sarebbe trattato di un passo in avanti rispetto al sistema elettorale precedente, ma appena resi pubblici i contenuti della riforma, cominciarono proteste, scioperi e altri atti di disobbedienza civile da parte di alcuni movimenti universitari, tra cui Occupy Central, che paralizzò per più di due mesi il centro di Hong Kong. Non vi era spazio per il dissenso aperto e il suffragio universale, infatti il Governo di Pechino si oppose sin dall’inizio. Le varie anime della protesta, per ripararsi dalla repressione della polizia che utilizzava lacrimogeni e spray urticanti, furono rinominate ‘Umbrella Movement’. In seguito sia la protesta che l’attenzione mediatica andarono affievolendosi. Ma le università sono ormai coinvolte e vengono viste dalla leadership comunista come covi di intellettuali che non solo creano caos, ma addirittura commettono atti di alto tradimento. Tra i segnali che fanno capire come il Governo di Pechino e i suoi alleati di Hong Kong stiano contagiando e vogliano dare un freno alla libertà accademica della città più liberale della Cina, vi è la decisione di bloccare la nomina di Johannes Chan. Essa nasce dalla volontà di punire i suoi legami con Benny Tai, altro professore della facoltà di legge e tra i leader del movimento democratico di Occupy Central. Si tratta di una vendetta politica di Pechino che risulta inaccettabile perché mira a zittire e punire gli animatori delle proteste dello scorso anno. D’altra parte, se la Cina censura addirittura ogni riferimento su Internet che riguarda i moti di Piazza Tienanmen, è proprio perché teme la democrazia. Ciò che viene alla luce è una intensa politicizzazione dell’ambiente universitario: molti docenti hanno paura di esprimere liberamente le proprie opinioni per timore di ritorsioni sulle loro carriere. Sono i professori più giovani e precari che si sentono maggiormente a rischio, e probabilmente una loro eventuale partecipazione a queste marce di protesta potrebbe costargli il licenziamento. La perdita di libertà accademica è forte, soprattutto perché l’autonomia è limitata dal CDA, che decide su fondi e finanziamenti ed è diretta emanazione di Pechino. Il sospetto sempre crescente è che i finanziamenti e le promozioni siano basati sulla fedeltà al regime e non sul merito. Questo clima spinge molti accademici alla cautela, all’autocensura e al silenzio; ed è proprio quest’ultimo che lascia spazio a una lenta ma costante erosione di libertà intellettuale. Può la censura sopprimere la verità, anche solo per un breve tempo?

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