L’irresistibile tentazione del Civismo: fenomenologia di un fallimento (apparentemente) irreversibile

A cura di Andrea Curti

La politica italiana è in crisi. E’ noto, lo è da tempo e sotto molti punti di vista. Ed è altrettanto noto che quando un sistema entra in crisi, si creano delle sacche di vuoto che possono riempirsi di tutto o di niente. La già antica crisi del sistema dei partiti politici tradizionali viene istituzionalizzata all’inizio degli anni novanta, quando un pool di volenterosi magistrati e una particolarissima convergenza storica consentono di fare piazza pulita di un intero sistema istituzionale che per cinquant’anni aveva retto le sorti del nostro Paese. La transizione dalla prima alla seconda repubblica, sorta dalle ceneri di Tangentopoli, segna in profondità la storia politica italiana, anche se è tuttora lecito dubitare sulla reale portata innovativa di un processo così repentino, dato che non sempre ciò che è nuovo è foriero di novità. Parallelamente a questo terremoto dei partiti storici, con particolare riferimento a quelli socialisti e di sinistra, viene alla ribalta un fenomeno che avrebbe avuto, a partire dagli anni novanta, un’evoluzione vertiginosa, consolidandosi in esperienze via via sempre più importanti, tra tutte l’elezione, nel 2003, di Riccardo Illy –si, quello del caffè- alla presidenza della regione Friuli Venezia Giulia: il civismo. Tecnicamente il termine allude alla coscienza dei doveri di cittadino che si manifesta in azioni e comportamenti utili al bene comune. I politologi lo definiscono come una visione della politica alternativa al sistema dei partiti che consente, in poche parole, che esponenti della società civile si occupino della gestione e della tutela dei beni appartenenti alla collettività; che facciano politica. L’esigenza di dar spazio a voci e a volti nuovi estranei ai giochi di palazzo, di mettere in prima linea la gente comune, nasce dalla conclamata delegittimazione che la politica professionale è stata in grado di infliggere a sé stessa. Il politico di professione, il partito come struttura organizzata vengono sostituiti dal cittadino privo di sovrastrutture e interessato unicamente al bene della collettività, che poi si risolve, di fatto, anche nel proprio. Da un lato c’è l’assenza di strutture intermediarie, la percezione dell’amministratore non più così distante dall’amministrato, la novità dei volti e delle voci e la totale dedizione ai soli valori civici, politicamente pressoché neutrali; dall’altro il fallimento della politica e dei suoi organi, la perdita di credibilità del loro modus operandi, la conclamata incapacità di proporre alternative ritenute valide e, banalmente, troppe occasioni sprecate: sono questi gli elementi che hanno contribuito e contribuiscono all’appeal che ancora oggi circonda il civismo. E questa è la teoria. La prassi, come spesso accade, ci riporta un quadro del tutto diverso. Facendo riferimento, come l’attualità ci consiglia, alle esperienze amministrative locali e alle imminenti elezioni in alcuni tra i comuni più importanti del Paese, possiamo facilmente osservare come la partita se la giochino da un lato i partiti, o ciò che ne rimane, frantumati e spesso impegnati in lotte fratricide e scissioni intestine, dall’altro gli esponenti della società civile: imprenditori, artisti, uomini di cultura, di spettacolo, di scienza, ex funzionari dello Stato elevati a salvatori della patria, insegnanti, ambientalisti, Pippo, Pluto, Paperino. Salvo poi osservare, sforzando davvero poco il senso critico, che anche questi, di fatto, rispondono e si integrano perfettamente nelle logiche partitocratiche, richiedendo e ricevendo l’appoggio dell’una o dell’altra fazione che gli garantisca un elettorato certo, risolvendosi nell’ennesimo e ripetitivo ritrovato mediatico con il quale, ancora una volta, si cerca di nascondere i problemi (tra tutti, la disaffezione e l’astensionismo) con soluzioni davvero solamente –il più delle volte e salvo meritorie eccezioni- di facciata. E allora dov’è il vero elemento di novità, di discontinuità, che pure sono i vessilli che tutti ostentano? La reale questione, che dovrebbe rivestire la massima urgenza nel caotico panorama dei dibattiti di sociologi, politologi, giornalisti e cittadini, è il recupero della dimensione identitaria ed originaria di una Politica con la “P” maiuscola che sia in grado di riacquisire dignità per fare ciò che, da sempre e saggiamente, è chiamata a fare: esercitare il potere. Basti pensare a fenomeni come il M5S, che –al di là di ogni valutazione di merito- riescono negli anni ruggenti dell’antipolitica galoppante ad entrare in Parlamento risultando, nonostante la giovanissima storia, il partito più votato alle ultime elezioni nazionali, eppure guai a definirli “politici”. Ed è anche questo un aspetto da sottolineare: occorre ragionare sul perché ci si vergogni della parola “politico”, quando rappresenta, ancor prima che etimologicamente, un concetto storicamente tra i più alti e affascinanti che la comunità organizzata sia riuscita a produrre. Un vanto, non un insulto dal quale rifuggire.L’alternativa del civismo, seppur accattivante e del tutto giustificata in un’epoca come la nostra, rischia tuttavia di vedersi addossata una duplice responsabilità: da un lato, quella di svilire ancor di più e in profondità la sostanza e il nome di una politica che, del resto, non riesce ad imporsi e ad essere in grado, essa stessa e per prima, di tornare ad una dimensione di dignità e rispettabilità che appassioni e coinvolga il cittadino; dall’altro quella di portare alle redini del potere pubblico l’improvvisazione e il dilettantismo, che, dietro alla sensazionalistica facciata dell’indipendenza e del nuovo, (mal)celano il rischio di essere comunque, di fatto, autostrade per la manovrabilità e l’ingerenza da parte di chi, altrove, rimane nell’ombra a decidere le mosse nello scacchiere. Il recupero della dignità della politica deve far tappa perciò anche attraverso il passaggio (o il ritorno?) dal politicante al politico di professione, tenendo alla mente, come ci ricorda un padre nobile della sociologia come Max Weber, che ci sono sempre due modi di fare il politico: si può vivere per la politica, o si può vivere della politica, ed è unicamente da quest’ultima categoria di mestieranti che dobbiamo ben guardarci.

“Il recupero della dignità della politica deve far tappa anche attraverso il passaggio dal politicante al politico di professione, tenendo alla mente che ci sono due modi di fare il politico: si può vivere per la politica, o si può vivere della politica”

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