I poteri del giudice e delle parti fra autoritarismo e liberalismo: una difficile composizione

A cura di Mariana Ragozzino con la collaborazione del Prof. Bruno Capponi –

«Il punto di equilibrio tra i poteri di iniziativa del giudice e quelli delle parti non si può fissare una volta per sempre in base a considerazioni di pura tecnica processuale, ma deve necessariamente essere segnato in funzione del punto di incontro tra interesse pubblico e l’autonomia privata del diritto sostanziale di cui il processo è strumento.»
Quanto mai attuali risultano essere le parole di Piero Calamandrei, evocative di un principio guida spesso ignorato dai più recenti interventi legislativi che hanno avuto (e avranno) l’effetto di delineare un’immagine caleidoscopica del processo. Più in particolare, le recenti riforme in tema di degiurisdizionalizzazione e di fase introduttiva del giudizio ordinario di primo grado possono suggerire una riconsiderazione del concreto atteggiarsi delle due (lato sensu intese) correnti ideologiche sottese al codice di procedura civile, preordinate alla ricerca di un punto di equilibrio fra pubblico e privato nella risoluzione dei conflitti e identificate, secondo la più solida tradizione storico-giuridica, nel liberalismo e nell’autoritarismo. La prima, innestata nel nostro ordinamento grazie al tramite del Code de procédure civile napoleonico del 1806, risponde alla concezione garantista dei rapporti giuridici e si articola sul perfetto parallelismo fra principio dispositivo in senso sostanziale e in senso processuale: essendo il processo subordinato all’impulso di parte e avendo per oggetto la tutela dei diritti dei privati, il suo andamento è di riflesso rimesso alle parti stesse, delle cui strategie difensive il giudice è mero controllore, trovando il suo ingresso in scena solamente nel momento decisorio.
La seconda, di contro, prendendo le mosse dal socialismo giuridico consacrato nel Regolamento processuale austriaco del Guardasigilli Franz Klein e sviluppata, nella sua connotazione pubblicistica, nel progetto di riforma chiovendiano del 1920, sposta il baricentro del processo dalla Dispositionmaxime alla Offizialmaxime e si fa promotrice di un nuovo ufficium iudicis, presente nella direzione formale e materiale del processo sin dalle primissime fasi. Puntando su di un’accentuata funzione sociale della giurisdizione, la “socializzazione” e la conseguente e più recente “moralizzazione” del processo fornisce al giudice ampi poteri al fine di sottrarre il giudizio alle parti e ai loro possibili abusi.
I connubi liberalismo-interesse privato e autoritarismo-interesse pubblico sono stati i poli attorno ai quali ha oscillato il pendolo del legislatore, come dimostrano l’alternarsi quasi kierkegaardiano delle riforme che hanno interessato il codice del 1865, di impronta chiaramente liberale, in cui l’attività processuale è in massima parte controllata dalle parti, e delle riforme del 1940, 1973 e 1990, propugnatrici, di contro, dell’approccio pubblicistico.
Se il codice di procedura civile post-unitario aderisce ad un principio dispositivo puro e rimette all’iniziativa delle parti non solo l’an del processo ma anche il quomodo, concedendo alle medesime il potere di determinarne i ritmi, di provocare l’acquisizione al giudizio delle prove o di modificare le domande in assenza di qualunque preclusione, il codice del 1940, operando una complessa e sapiente sintesi delle correnti culturali e giuridiche dell’epoca, accentua il carattere statualistico – pubblicistico della giurisdizione e introduce l’inedita figura del giudice istruttore, attribuendogli un ruolo più attivo nella conduzione del processo, con speciale rilievo alla fase preparatoria del giudizio, sulla quale si è concentrata l’attenzione del legislatore italiano in quanto snodo fondamentale per enucleare il «vero volto della controversia». Basti pensare che il giudice istruttore deteneva un sindacato assoluto riguardo ai giudizi di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova, senza che le parti avessero alcun potere di reclamo immediato davanti al collegio avverso le ordinanze, aspetto, questo, immediatamente corretto dalla novella del 1950 con l’introduzione del reclamo diretto dinanzi al collegio. Inoltre, proprio al revirement del 1940 è ascrivibile l’introduzione dell’ordine di integrazione del contradditorio nelle ipotesi di litisconsorzio necessario ai sensi dell’art. 102 c.p.c e della possibilità per il giudice di chiedere, in sede di prima udienza di trattazione, i chiarimenti più opportuni.
Alla progressiva estensione dei poteri del giudice, il legislatore ha sin dall’inizio contrapposto la corrispondente erosione dell’area dei poteri delle parti, che trova un passaggio obbligatorio nella previsione del regime delle preclusioni, trapiantato nel terreno del processo civile a seguito della veicolazione operata dalla l. 533/1973 nell’ambito del rito del lavoro, gradualmente delineato dalla l. 353/1990, poi dalla l. 80/2005 e acuito, in seguito, dalla legge delega 69/2009 fino ad arrivare alla legge di conversione 134/2012, la quale ha inasprito la disciplina dei nova ammissibili in appello e introdotto i filtri degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., sbilanciando ulteriormente l’equilibrio del processo in favore del giudizio di primo grado.
Lungi da qualsiasi sterile e ampollosa giustapposizione o categorizzazione fra i due modelli, la diacronica summa divisio succintamente tratteggiata fra liberalismo e autoritarismo mostra la sua dimensione feconda se elevata ad angolo di osservazione per l’analisi delle dinamiche che interessano i contorni del principio dispositivo alla luce del ricco e variegato panorama normativo attualmente vigente in materia di poteri del giudice e delle parti.
La doppia dimensione del principio dispositivo (distinguo operato dalla dottrina all’inizio degli anni Cinquanta, in particolare da T. Carnacini, nel suo saggio “Tutela giurisdizionale e tecnica del processo”) in senso sostanziale o proprio, afferente al promuovimento del giudizio e alla determinazione del suo oggetto ad opera delle parti, e in senso processuale o improprio, corrispondente, invece, all’area di invocabilità della massima judex juxta allegata et probata partium decidere debet e, pertanto, attinente al profilo strettamente probatorio, consente di apprezzare maggiormente come l’adesione all’uno o all’altro «modello culturale» ovvero «all’una o all’altra concezione di Stato» possa condurre a considerazioni diverse sulla valutazione della composizione della frattura creatasi fra principio dispositivo e principio inquisitorio, portando a maturazione le riflessioni sul punto di una corposa dottrina, che affondano le proprie radici nella più antica contrapposizione fra ordine isonomico e ordine asimmetrico del processo, di stampo aristotelico – platonico.
Nell’indefettibile ciclo biunivoco fra diritto sostanziale e diritto processuale, alla soggettività degli interessi corrisponde la natura dispositiva dell’iniziativa processuale: il principio della domanda e dell’attivazione della giurisdizione su richiesta di parte è quindi elevato a canone fondante dell’intero processo civile, seppur con le minime eccezioni inserite proprio dal codice del 1940 in riferimento ai casi di legittimazione ad agire del Pubblico Ministero nei casi stabiliti dalla legge. A ciò si aggiunge l’obbligo per il giudice di pervenire ad una decisione non solo nei limiti di quanto allegato, ma anche di quanto provato dalle parti, sulla scorta del principio cristallizzato dal combinato disposto degli artt. 99 e 115 c.p.c. Segnando una netta linea di demarcazione fra i ruoli processuali dei soggetti coinvolti, ben distinti e non sovrapponibili, una simile accezione del principio dispositivo è caratterizzata da un’effettiva parità fra gli stessi in quanto ugualmente obbligati a soggiacere alle regole del processo, specialmente in riferimento all’istruzione probatoria, che, come già precedentemente evidenziato, costituisce il reale discriminante fra le differenti contrapposizioni sin qui accennate: difatti, laddove si richiami il principio inquisitorio nell’ambito del processo civile, contrariamente al processo penale, è doveroso precisare che si intende far riferimento, in maniera del tutto generica, ad un processo in cui prevalga la forma inquisitoria, ovvero in cui il giudice « pur avendo dinanzi a sé due parti, sia svincolato, per la ricerca della verità, dalle iniziative e dagli accordi delle medesime» (P. Calamandrei, Linee essenziali sul processo inquisitorio, in Studi in onore di Chiovenda, Padova, 1927). Proprio sul livello da ultimo esplicitato, a partire dal 1940 in poi, si assiste al passaggio da un modello dispositivo “puro” ad un modello misto, caratterizzato dalla commistione con elementi di natura inquisitoria, evidenti nelle previsioni di autonomi poteri di direzione processuale e di iniziativa istruttoria, di cui gli artt. 175 e 187 c.p.c. sono chiari indici sintomatici. In questa cornice programmatica devono essere collocati, a titolo meramente esemplificativo, l’istituto dell’interrogatorio libero di cui all’ art. 117 c.p.c o dell’ordine di ispezione di cose o persone di cui all’art. 118 a cui si ricollega anche l’ordine di esibizione di documento o altra cosa di cui il giudice ritenga necessaria l’acquisizione al processo a norma dell’art. 210, così come la chiamata di terzo ex art. 107 c.p.c. Dal mero richiamo degli articoli succitati, si può dedurre che la scissione del contenuto del principio dispositivo in senso sostanziale, relativo all’esercizio dell’azione e all’allegazione dei fatti, e in senso processuale, inerente, invece, alla fase istruttoria e, nello specifico, all’iniziativa in ordine all’assunzione dei mezzi di prova, fornisce un rilevante argomento a favore dello smussamento dei tratti più rigidi ed estremi della contrapposizione con il principio inquisitorio, inquadrando giustamente il tema nel più coerente distinguo di fondo fra tutela giurisdizionale e tecnica del processo e, dunque, fra disponibilità dell’oggetto del processo e disponibilità del processo stesso. Risulta, cioè, pacifico che anche a fronte di una tendenza sempre più dilagante non solo nell’ambito del panorama italiano (potendosi richiamare a titolo di esempio, la riforma tedesca del 2001 e il case managment del giudice inglese all’indomani del Civil Procedure Rules del 1999) votata all’attribuzione di un ruolo attivo e correttivo del giudice, rimane comunque fermo e intatto il monopolio delle parti sia in ordine all’inizio e all’oggetto dell’azione sia in ordine all’allegazione dei fatti, non andandosi ad intaccare il “nucleo duro” del principio dispositivo in senso sostanziale. Alla luce di ciò, i più recenti interventi dottrinari hanno addirittura reimpostato i termini del discorso qui in esame, suggerendo l’applicabilità di un binomio più aderente al sistema processuale italiano, questa volta incardinato fra principio dispositivo e metodo istruttorio acquisitivo.
Di conseguenza l’originaria configurazione della concezione autoritaria del processo assume una colorazione sicuramente politicamente meno accesa rispetto ai toni attribuitigli da chi ha classificato il codice del 1940 come prodotto fascista; il giudice sveste i panni dell’«inquisitore» per fregiarsi dell’habitus del garante, in una dimensione che trova sicuramente riparo all’ombra della nuova sagoma dell’art. 111 della Costituzione, allorquando non solo debba essere garantita una tutela giurisdizionale effettiva, ma anche debba essere assicurata una ricostruzione dei poteri ufficiosi del giudice comunque legata alla sussistenza di presupposti e suscettibile di controllo. In questi termini, il ruolo del giudice viene caratterizzato da una nuova dimensione, convivente (in maniera più o meno armoniosa) con i poteri delle parti e finalizzata alla migliore realizzazione del giudizio in quanto tale e non in quanto strumento asservito all’uno o all’altro soggetto del processo.
Il principio del “giusto processo” supera, dunque, la netta contrapposizione fra modello liberale e modello autoritario, collocando la valutazione delle dinamiche processuali non più sul piano prospettico della parte o del giudice, bensì dell’iter procedimentale in senso stretto e del risultato a cui conduce, qualitativamente e quantitativamente inteso: nell’ottica di una simile concezione, ciascun ruolo viene dotato dei poteri più consoni al raggiungimento della migliore risoluzione del conflitto, nel rispetto delle garanzie costituzionali del contraddittorio, del diritto alla difesa e della ragionevole durata. Questo nuovo modello ideologico sembra potersi ravvisare sia nella ratio dell’abbreviazione dei più importanti termini acceleratori, sia nel tenore testuale dell’art. 307 , quarto comma, c.p.c. in merito alla rilevazione d’ufficio dell’estinzione del processo per inattività delle parti o dell’art. 183, quarto comma, c.p.c., volto a contrastare il fenomeno delle sentenze della “terza via”. Ad oggi, il liberismo e il tecnicismo sfrenato che sembrano caratterizzare l’attuale fase dei rapporti politico sociali e la sempre più dilagante diffusione del fenomeno della “fuga dal processo” riaprono, tuttavia, nuovi orizzonti nella composizione fra anima liberale e anima pubblicistica del codice, laddove, per esempio, il nostro ordinamento contempli ora la possibilità per le parti di sottrarre, per così dire, il processo al giudice e di imporre un “arresto” del tutto anomalo dello stesso, optando per l’arbitrato di prosecuzione. Anche se appare più opportuno dire che l’estremizzazione a cui si assiste negli ultimi tempi, principalmente funzionale alla decongestione delle aule dei Tribunali e all’incremento della competitività del sistema di tutela del credito ( in ultimo, il d.l. 83/2015 recante « Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria»), unitamente agli interventi legislativi sempre più settoriali e mal coordinati, ha avuto come conseguenza la perdita di quell’approccio di più ampio respiro alle singole disposizioni del codice di rito, indispensabile per tentare di inverare un progetto normativo di carattere generale e per non rendere il c.p.c. «una tela di Penelope tessuta e disfatta senza posa» ( così efficacemente B. Capponi, Il diritto processuale civile « non sostenibile», in Riv trim dir e proc. civ 3/2013, con particolare riferimento alle riforme al processo esecutivo avvicendatesi dal 2005 al 2012). Di certo, significativo, a tal riguardo, è il fatto che da almeno dieci anni il legislatore abbia reso strumento principale della sua produzione normativa in materia di processo civile la decretazione d’urgenza, spesso e volentieri scavalcando la fase dei lavori preparatori e impedendo, così, sia il coagularsi di un vero e proprio indirizzo culturale ispiratore che il confronto dialettico dei singoli contributi. Quest’ultimo più recente modello di processo restituitoci non sembra contenere in sé nessun tipo di sforzo “ideologico”, ma, piuttosto, si pone agli occhi degli interpreti come il risultato di un nuovo tipo di “autoritarismo”, ravvisabile non più in una diversa modulazione del rapporto fra ruolo del giudice e delle parti, ma in una tradizione legislativa che impone norme svincolate dalle reali e (ragionevoli) esigenze di cui sono portatori i destinatari delle stesse.

Bibliografia
F. Cipriani, Autoritarismo e garantismo nel processo civile, in Riv dir. proc. 1/1994, p. 24 e ss
F. Cipriani, Il processo civile in Italia dal Codice Napoleonico del 1865 al 1942, in Riv. dir. Civ. 1/1996, p. 71 e ss.
G. Scarselli, I poteri del giudice e diritti delle parti nel processo civile, Edizioni scientifiche italiane, 2010.
B. Capponi, Il diritto processuale civile « non sostenibile», in Riv trim dir e proc. Civ. 3/2014, p. 855 e ss.
B. Capponi, Il processo civile e la crescita economica (una commedia degli equivoci), in Giustiziacivile.com 6/2015

 

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