NO TAXATION WITHOUT REPRESENTATION

A cura di Piervincenzo Lapenna

Considerazioni di un remainers dopo la Brexit.

Londra, 24 Giugno 2016,

Non erano ancora le dieci del mattino quando il Premier inglese David Cameron ha annunciato le sue dimissioni dopo che il referendum, da lui stesso promosso, sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ha visto trionfare il fronte del “leave”.

E’ questa la prima grande differenza fra uno Stato Membro e l’Unione: in un Paese democratico quando fatti così gravi -come la sconfitta in un referendum il cui esito è cruciale per il futuro della nazione e sul quale il governo ha speso tutta la sua credibilità politica- si verificano, un Presidente eletto dal popolo si deve dimettere. Questa è la normalità delle cose in democrazia, dove chi perde abdica in favore del vincitore.

Così non è, invece, nel sistema di governo dell’Unione Europea, dove la regola non è la democrazia ma, al contrario, la più completa irresponsabilità politica.

Nell’UE il circuito di rappresentanza democratica viene costantemente interrotto da forze ad esso estranee. Nell’UE coloro che ricoprono le posizioni di vertice e di comando, godono di una sostanziale immunità, causata in primo luogo dal deficit democratico che genera la loro nomina ed, in secondo luogo, dalla distanza enorme che risiede fra loro e la popolazione europea (tant’è che sfido chiunque fra di voi a riconoscere uno dei membri della Commissione fra la folla o in foto. Se in questo momento aveste davanti a voi un Commissario, molto probabilmente, nemmeno lo sapreste).

Bruxelles, 24 Giugno 2016,

Dopo avervi detto chi si è dimesso questa mattina ora vi dico chi non si è dimesso: si chiama Jean-Claude Juncker, è un politico lussemburghese ed è anche Presidente della Commissione Europea. Durante il suo mandato è successa una cosa incredibile, una cosa che fino a qualche anno fa nessuno credeva nemmeno lontanamente possibile. E’ successo che uno Stato Membro ha deciso di uscire dall’Unione , rischiando di avviare un processo di sgretolamento dell’Europa stessa e dissacrando quello che fino all’altro ieri era uno dei capisaldi dello stare comunitario: il processo di integrazione europea non è reversibile.

Juncker non si è dimesso perché per ricoprire il suo incarico non ha dovuto vincere nessuna elezione e perché, per continuarlo a ricoprire, non avrà bisogno di vincerne mai nessuna. Juncker durante la campagna referendaria per sconfiggere i “leavers” propugnatori della Brexit non ha avuto il coraggio di mettere piede in Inghilterra, perché probabilmente la sua presenza sarebbe stata più di ostacolo che di aiuto ai “remainers”.

Se ci pensate bene è un po’ un paradosso che se a parlare è la massima carica Europea, il numero di quelli che vogliono abbandonare l’Unione, invece di diminuire, cresca. Eppure credo che tutto questo sia normale, soprattutto se a decidere fra “In” e “Out” è proprio il popolo che la democrazia la ha scoperta (si, sfatiamo una volta per tutte questo falso mito, sono gli inglesi ad aver inventato la democrazia e non i greci, perché la democrazia o è indiretta o non è).

Gli inglesi nel 1215, e cioè già 800 anni fa, costrinsero un Re (Giovanni Plantageneto) ad approvare un provvedimento che codificava alcuni diritti fondamentali del popolo. Naturalmente sto parlando della Magna Charta Libertatum -la prima  grande costituzione contemporanea- e della più grande conquista scolpita in quella carta dei diritti, ovvero l’articolo 12  che così recita: “No scutage not aid shall be imposed on our kingdom, unless by common counsel of our kingdom” (nessuna imposta può essere applicata dal Re se non è stata approvata dal concilio del Regno).

Questo principio, nei secoli a venire, è stato rielaborato nella formula “No taxation without rapresentation” che ognuno di noi avrà sentito almeno una volta nel corso dei suoi studi, ma la sostanza non è mai cambiata: nessun inglese paga un centesimo se non può verificare da chi e come quel centesimo venga speso.

Voglio ora sfatare una falsa convinzione che potreste esservi fatti leggendo l’articolo che ho scritto  fino a questo punto. Io non sono un euro scettico. Avrei sicuramente votato “remain” perché credo nell’Europa, credo nel libero mercato e credo negli ultimi 70 anni di pace. Non sono però nemmeno un “euro-supino” perché forse credo un po’ meno in questa Unione Europea. Non credo, ad esempio, nella commissione, non credo nei poteri affidati fuori dal circuito di controllo democratico, non credo ad una moneta unica ed a diciannove debiti differenti.

Avrei votato “remain” perché credo che gli aspetti postivi dello stare nell’Unione, alla fine della fiera, superino quelli negativi. Perché credo che quello che non ci piace di questa UE potremmo essere proprio noi giovani generazioni a cambiarlo superando le poche ultime barriere che ci dividono. Perché credo nello stesso sogno di Altiero Spinelli e di Emilio Colombo (che ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere a Roma, pur essendo un mio concittadino, solo pochi mesi prima della sua morte e la cui ossessione per la questione europea e per quella meridionale mai potrò dimenticare),un sogno che non può essere tramontato dopo così poco tempo.

Allo stesso tempo però, a differenza di molti miei coetanei che ieri si sentivano inglesi ed oggi improvvisamente vorrebbero punire la Gran Bretagna per “educarne cento” non individuo nel popolo inglese la colpa della brexit. Se la brexit c’è stata è perché l’europa ha fallito la sua missione originale, ovvero essere un sistema, innanzitutto democratico prima che economico.

Se non posso individuare la responsabilità delle scelte politiche che non mi piacciono in un rappresentante allora non posso che ricercarle nell’Istituzione. E’ stata Brexit perché nell’UE non sappiamo mai di chi è la colpa, perché nell’UE non capiamo mai fino in fondo chi amministra le tasse che paghiamo e perché spesso nessuno ci da le risposte che all’europa chiediamo.

 E’ stata Brexit perché tutti questi sentimenti negativi hanno prevalso sui sentimenti positivi che pure ci sono, come ho già detto.

Non possiamo, per questi motivi, prendercela con gli Inglesi. Fare parte dell’Unione non può che essere una scelta e non è perché siccome ha vinto il “Leave” oggi gli inglesi sono meno europei di ieri.

Io voglio dire grazie al popolo inglese, che pur scegliendo di interrompere il cammino comune, ci ha dato l’occasione di salvare la nave prima che affondi. L’europa non può fare a meno del contributo dell’Inghilterra e non possiamo vessare un popolo solo perché ha scelto come noi non avremmo voluto. Questi due anni di trattative saranno fondamentali per capire se Londra dista meno da Washington che da Berlino, Roma o Parigi ed il mio augurio è che, seppur non come Stato Membro, l’Inghilterra possa comunque restare nell’orbita dell’Unione Europea.

I prossimi anni, invece, saranno fondamentali per dare una brusca sterzata al cammino dell’Unione. Per riallacciare le decisioni che vengono prese a Bruxelles al circuito democratico e per far capire alle persone che tante colpe che comunemente le attribuiamo, molto spesso, non sono nemmeno frutto di scelte sbagliate dell’Unione.

Concludo con un’ultima considerazione di carattere storico, quella che stiamo vivendo oggi non è   -a parere di chi scrive- la prima Brexit della storia europea. C’è stato già in passato un altro punto minimo della storia dei rapporti fra il continente e l’Inghilterra ed è coinciso proprio con lo Scisma Anglicano dalla Chiesa Cattolica. Nel XVI secolo ciò che venne messo in discussione, più che il diritto e la possibilità per un Re di divorziare, fu il controllo della Chiesa di Roma sul popolo. Un inglese, si sa, possiede una sola lealtà e questa non poteva andare contemporaneamente sia al Re che al Papa. La Chiesa Romana nella Gran Bretagna del 1500 rappresentava l’Istituzione Europea per eccellenza: aveva il potere di legiferare (tramite il diritto canonico) ed aveva propri tribunali, controllava l’istruzione e imponeva i propri dogmi morali. Gli Inglesi questo non potevano accettarlo, ed è per questo motivo che diedero vita alla Chiesa Anglicana. A differenza di Lutero loro non erano animati da motivazioni religiose, ma ciò che mosse quella Brexit furono vere e proprie ragioni politiche: ragioni che in varia misura ritroviamo anche in quel “Leave” attraverso il quale il popolo inglese, nella giornata di ieri, ha espresso la sua volontà di tornare un po’ più isola ed un po’ meno europa.

L’auspicio è che oggi -a differenza di secoli addietro- non si ricada ancora una volta nella tentazione di esibirsi nei soliti giudizi paternalistici e cioè in quella “scomunica” dei “leavers” che già abbiamo avuto modo di osservare in queste poche ore seguenti alla conclusione dello spoglio.

Abbiamo ancora la possibilità di scegliere un interlocutore per la transizione prossima ventura, poiché non tutti i sostenitori dell’Out sono dei pericolosi estremisti, ed è forse con la loro frangia moderata che l’europa deve dirsi disponibile a dialogare se non vuole correre il rischio di consegnare definitivamente la Gran Bretagna a forze illiberali e di stampo autoritario.

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