In Cina ho visto un Robot suonare un pianoforte a coda.

A cura di Augusto Drisaldi

 

Esco dall’ufficio, mi incammino verso l’incrocio fra Changshou Lu e Wuning Lu sbracciando verso taxi che passano cercando di fermane uno, rassegnato al destino che attende i cercatori di taxi cammino giusto qualche centinaia di metri finché, con mia sorpresa, un taxi dalla carrozzeria verde lime accosta. La mia destinazione e la Shanghai Power Station of Art (SPSA). Durante la mia permanenza nel paese del Dragone, oltre a occuparmi di fabbriche (link), Trading Internazionale e gare di salto con la corda (si quest’è un’altra storia) mi sono occupato di Arte.

Senza scendere nel dettaglio ho passato una giornata fra gallerie d’arte più o meno grandi, più o meno belle, più o meno squallide, parlando con più o meno manager, cercando di trovare quella giusta per portare una mostra tutta Italiana in Cina, insomma il cosiddetto “place searching”.

Mentre mi avvicinavo alla mia destinazione la città piano piano si trasformava, dal formicaio del mondo come l’ha definita un caro amico, mi ritrovo improvvisamente in un tranquillo quartiere residenziale sulla sponda del Huangpu River. Il taxi si ferma dietro l’angolo, pago, chiedo la mia fā piào e scendo. Trovare la Shanghai Power Station of Art non è particolarmente difficile considerando che vanta di una ciminiera da 165 metri.

Avvisata la mia ciminiera mi incammino in quella direzione, entro e mi fermo accanto ad un computer che suona un pianoforte e aspetto il mio contatto. Aspettando, il movimento continuo dei pistoni, le frasi sconnesse suonate in maniere ripetitiva mi catturano completamente. L’idea è affascinante e neanche troppo complessa: un computer che suona un piano. La mappatura dei tasti e la programmazione dei pistoni ad essi associati non è la parte più complessa, purtroppo non ho avuto modo di parlare con l’artista, ma l’idea che quel computer non fosse semplicemente programmato ad eseguire delle sequenze mi convinceva sempre di più: la sensazione era quella di un bambino che sta cercando di imparare, ora che sia il risultato di una scelta armonica e di una programmazione vincente, o effettivamente stavo assistendo al tentativo di una intelligenza artificiale di auto-apprendere come suonare un piano, purtroppo non mi è dato di saperlo.

Certo, non sarà Rachmaninov ma il risultato è ipnotico.

Miss Zhao ci mette poco ad arrivare, è una ragazza giovane ed elegante, capelli molto neri e pelle molto chiara, molto appassionata di arte e incredibilmente affascinata dall’Italia. Dopo le dovute presentazioni le spiego il progetto lei annuisce e mi invita a seguirla in un giro della galleria.

La Shanghai Power Station of Art, che in quel momento ospita la decima biennale di Shanghai, è un posto unico nel suo genere: immaginate una vecchia centrale elettrica riconvertita interamente a spazio espositivo. Parliamo di quarantaduemila metri quadri dislocati sulla bellezza di sette piani per un altezza interna di 27 metri, più terrazza.

Il tutto impreziosito dal ricordo di un non lontano retaggio industriale, dimostrato dall’argano che sovrasta l’ingresso.

La PSoA era una vecchia centrale elettrica costruita nel 1935, la pianta odierna è stata disegnata circa vent’anni dopo. Nel 2007 la Nanshi Power Plant chiude i battenti, e nel 2010, durante l’Expo, viene dichiarata la prima Green-fabric Cinese a tre stelle.

Sessantaquattro milioni di dollari dopo, apre nel 2012 la Shanghai Power Station of Art che vediamo oggi.

La Biennale è meravigliosa e gli spazi sono a dir poco immensi, anche le stanze più piccole, grazie a soffitti alti minimo 3-4 metri, danno un colpo d’occhio non indifferente. Fra dipinti e istallazioni di ogni genere mi colpisce in particolare Black to Comm di Titus Maderlechner. Immaginate uno schermo da tre metri per due in una stanza illuminata solo dalla luce del suo stesso schermo. L’immagine, che inizialmente sembra un dipinto, ricorda per la sua plasticità la zattera della medusa con toni più caravaggeschi. La vera meraviglia è però nella commistione fra musica ed immagini. Il video è statico, a primo impatto infatti sembra un dipinto, la fotografia è superlativa. Con un po’ di attenzione però si noterà che il campo si sta piano piano allargando e quella che era una piccola scena diviene un intero palcoscenico.

La musica è tensiva e molto introspettiva, va a toccare le tue corde più intime fino a crescere in un climax culminante nella rottura della staticità del video, che fino a quel momento poteva essere tranquillamente scambiato per un quadro. I personaggi, da dormienti e morti che erano, iniziano lentamente a muoversi. La scena è di una potenza indescrivibile: la musica sta nel suo punto più alto, ma ciò che veramente colpisce è quel movimento improvviso che sconvolge la percezione che si aveva del dipinto. Quello che, fino a un attimo prima sembrava un quadro si rivela senza alcun tipo di premessa un filmato, e il tutto avviene, nonostante la potenza estetica dell’azione, con una delicatezza invidiabile. Tutti questi elementi contribuiscono a creare un senso di meraviglioso disagio nello spettatore. La stretta finale sul volto di un uomo con una benda sugli occhi, poi, corona questo percorso emotivo.

Ripresomi da una delle esperienze artistiche più forti di sempre continuo il mio giro. La biennale è molto affascinante, l’offerta artistica è molto varia. Mi colpisce un pupazzo di pezza modellato come un uomo sulla cinquantina, ha le dimensioni di un bambino di dieci anni, con indosso un vestito elegante, ovviamente di pezza, seduto a gambe incrociate su uno sgabello. Non so se a colpirmi sia stata l’indubbiamente insolita rappresentazione o l’effetto di inquietudine che bambole a pupazzi antropomorfi mi hanno sempre inflitto. Fatto sta che quel pupazzo, appoggiato ad una colonna nel mezzo di una sala decisamente troppo grande per ospitarlo mi ha fatto fremere in un piccolo brivido.

Zhao mi racconta la storia della fabbrica e di quando, ormai quasi 5 anni fa, anche il grande Expo di Shanghai è stato accolto, fra i tanti, sotto questo tetto industriale. Mi racconta della mostra di Andy Warhol e di quanto le piacesse la sua modalità espressiva anche se non la condivideva in pieno. Arriviamo sulla terrazza, che offre uno spettacolo mozzafiato, mi spiega che spesso viene affittata per eventi e feste di inaugurazione o chiusura di mostre varie.

Provo a immaginarmi che tipo di festa possa venir fuori in un posto del genere, la prima immagine che mi viene in mente è qualcosa fra il grande Gatsby e la pubblicità dello Jagermaister, solo che con un’altezza media di un metro e sessanta. Un po’ come se al posto di Di Caprio ci fosse un ragazzino di 13 anni.

Vista la terrazza continuiamo il giro, arriviamo alla sala più grande, quella in cui Cartier durante l’Expo ha esposto una quantità di gioielli che neanche Ali babà e in quaranta ladroni. Parliamo di un salone da mille e duecento metri quadri con soffitti alti otto metri. Non so se rendo l’idea. Finiamo il giro, devo dire in compagnia di una persona molto piacevole e parliamo degli ultimi dettagli d’affitto, metratura e quant’altro. Prima di andare mi dice che per il capodanno cinese farà un viaggio lungo tutta l’Italia, io le consiglio qualche posto da vedere assolutamente, e da bravo italiano qualche piatto che una guida turistica non consiglia, lei si segna tutto sulla sua agendina, ci salutiamo nella Hall e torna al suo ufficio.

Prima di uscire e andare verso Moganshan Lu dove ho appuntamento con circa una decina di gallerie, mi fermo a osservare il computer che al mio ingresso si divertiva con qualche nota traballante. Accenna qualche nota, piccole frasi più o meno sconnesse fra loro come fosse un principiante che si esercita, poi di punto in bianco, come se avesse sbagliato una nota e si fosse innervosito, suona una valanga di note a caso. Un mano che scorre stizzita sulla tastiera. Si ferma un paio di secondi e riprende le sue frasi sconnesse.

Forse si è storto che non riesce a suonare come uno di noi.

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