A cura di Marco Matani-
Non saranno un peccato capitale come quelli che cantava De Andrè, ma il pressapochismo, l’incompletezza, il vuoto sensazionalismo e la vaghezza interessata varranno pure un commento di disappunto su un giornale universitario; soprattutto se essi provengono non semplicemente dalle pagine di questo, bensì da uno scranno ben più elevato: la presidenza dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale.
Antefatto: mi apprestavo ad intraprendere la tratta Napoli-Teramo, e aggirandomi per la sede della Feltrinelli a Piazza Garibaldi agguanto tre volumetti: Rousseau, Piketty, Boeri. L’ultimo nome campeggia a caratteri cubitali sul titolo del trattatello: “Populismo e stato sociale”.
Indotto dalla curiosità generata dalla profusione di dichiarazioni ed opinioni rilasciate da Tito Boeri sull’argomento nell’arco dell’ultimissimo periodo, decido che ad allietare le ore di pullman che avevo di fronte sarebbe stato proprio il suo succinto lavoro.
Una scelta che, ormai giunto all’ombra del familiare Gran Sasso, mi sarei trovato senz’altro a rimpiangere (così come già rimpiangevo le sfogliatelle che avrei potuto comprare, prima di ripartire, con gli stessi soldi spesi per il libricino).
Già dalle prime pagine, il taglio dell’opera è chiarissimo: o Europa o morte, gli immigrati ci pagheranno le pensioni, i populisti sono le nuove camicie brune (passati di moda i fascisti ora che anche il 25 aprile è una festa per i “patrioti europei” tutti in blu, i salotti della borghesia piddina hanno insomma nuovi riprovevoli mostri buoni a far sobbalzare il monocolo nel calice di cognac).
Tuttavia, già della prefazione, la sensazione che mi assale è quella di star leggendo “qualquadra che non cosa”.
Boeri afferma: “Il pericolo ha un nome ben preciso. Si chiama populismo, la possibile affermazione di partiti che offrono un messaggio semplice quanto pericoloso: interrompere il processo di integrazione europea e chiudere le frontiere agli immigrati (…). E’ un messaggio che mina alle basi il principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea (…). E’ un messaggio che toglie soprattutto ai giovani la migliore assicurazione sociale contro la disoccupazione di cui oggi possano disporre. Trovare lavoro in un altro paese dell’Unione è un’opzione per molti quando le cose vanno male dove si è vissuti sin lì. Lo testimonia il vero e proprio esodi di giovani italiani verificatosi negli ultimi sei anni (…)”.
La prima cosa che occorrerebbe chiedersi è: qual è esattamente il nesso tra “interrompere il processo di integrazione” e “chiudere le frontiere agli immigrati”? Quali sono gli “immigrati” di cui si sta parlando? Regolari o irregolari? Perché si utilizza un’espressione così ampia, altisonante, terribile, quanto vaga sino a non significare nulla come “chiudere le frontiere”? Chiuderle a chi, ai regolari o agli irregolari? Si tratta di un’ambiguità non perdonabile guardando al dato momento storico, in specie per una carica del calibro della presidenza dell’Inps; è infatti indubbio che oggi, quando si parla di immigrazione, ci si riferisce in primo luogo, e col legittimo carico di preoccupazione, alla pressione migratoria esercitata sul nostro Paese dai flussi provenienti dal Nord Africa: insomma, non esattamente la stessa situazione di un professionista olandese che prenda l’aereo per venire ad aprire il suo studio a Cologno Monzese.
Volendo, nel dubbio, andare sul sicuro e prendere per buono il “chiudere le frontiere agli immigrati” nella sua accezione la più generale possibile, cioè quella che ricomprende come vettori e l’aereo sulla tratta Schiphol-Ciampino e il barcone a largo delle coste libiche, Boeri sarà contento di constatare come effettivamente coloro che perorano misure restrittive a tal fine, impegnandosi ad impedire ai migranti, perlomeno a quelli “scomodi”, di entrare nei loro Paesi siano, di frequente, proprio gli stessi alfieri della lotta contro il populismo, i portabandiera dell’ideale europeista: gli esempi della Francia di Macron e dell’Austria di Van der Bellen sono fin troppo eloquenti. Insomma, l’associazione tra rafforzamento dei confini e volontà di fermare l’integrazione europea è, quantomeno, non così biunivoca.
Secundis: cosa induce Boeri a tirare in ballo subito dopo il supposto attentato al principio della libera circolazione dei lavoratori? Per procedere ad una simile, importante affermazione, impossibile da proferire così a cuor leggero, il presidente avrebbe dovuto prima specificare che il “populismo” si batte contro l’immigrazione dei residenti regolari europei all’interno dell’area di Schengen: una premessa logica che sarebbe necessaria, sebbene infondata; così come del tutto infondata è la conseguenza (il)logica della messa in discussione della libera circolazione dei lavoratori in Europa, che Boeri profila.
Il terzo punto fallace è rappresentato dal cinico compiacimento che il presidente dell’Inps ostenta davanti al fatto che i giovani italiani, se non trovano adeguate possibilità dove sono nati per il semplice e marginale particolare che il loro Paese sta collassando, possono comunque emigrare in Europa. Boeri sembra però ignorare che, fatta eccezione per la Germania, i principali Paesi europei abbiano tassi di disoccupazione ben al di sopra del 5%; così come solo Austria e Olanda, se si eccettua la “solita” Germania al 6,6%, possono vantare un tasso di disoccupazione giovanile intorno al “solo” 9% (Eurostat, Frebbraio 2017). Insomma, per quanto sia grande la Germania, ci si potrebbe chiedere dov’è che in Europa tutti i giovani disoccupati italiani possano effettivamente andare a sbattere la testa. Subito dopo la fine del virgolettato, Boeri offre un dato con cui pretenderebbe di giustificare quanto appena detto (la supposta relazione causale è nettissima: “Lo testimonia…” sono le letterali parole), di verificare che cioè l’emigrazione verso i Paesi dell’Unione (ribadiamo, dell’Unione) è una valvola di sfogo per la disoccupazione giovanile italiana; il dato afferma che negli ultimi sei anni di crisi, secondo le domande di iscrizione all’AIRE (Anagrafe italiana residenti all’estero), in quello che l’autore stesso chiama “un vero e proprio esodo”, più di 100.000 sono gli italiani emigrati ogni anno. Ebbene, appare quanto meno desolante che il dato, lanciato grossolanamente in pasto al lettore disattento, non riguardi né l’emigrazione giovanile (i 100.000 mila italiani sono di tutte le età), né il numero di emigrati verso i paesi dell’Unione (le richieste all’AIRE non sono esclusivamente quelle dai paesi dell’Unione), come invece dovrebbe essere per dare conseguenzialità logica al ragionamento. Della serie: va bene che sono partiti (i giovani, possibilmente), ma dove sono andati?
Boeri inoltre non mostra la più minima preoccupazione per il fatto che, dal punto di vista microeconomico, per quanto un giovane italiano che vada a cercare lavoro in Europa possa essere assunto perché più produttivo (più bravo), permangono a livello continentale, come gli elevati tassi di disoccupazione dimostrano, vertiginosi scompensi macroeconomici che castrano di netto il suo ragionamento, che nasce già di per sé abortito. Tantomeno in nessun passaggio egli si mostra minimamente accigliato per la terribile perdita di capitale umano che la famosa fuga dei cervelli reca al nostro Paese, ferendone il tessuto sociale in maniera irreversibile, producendo desertificazione intellettuale; o per il conto in rosso nella spesa formativa, conseguenza della medesima dinamica. Boeri, come afferma in un passaggio successivo, guarda solo ai risparmi per il suo Ente sotto il profilo delle erogazioni assistenziali per la disoccupazione: “E’ un’assicurazione contro la disoccupazione che ha, peraltro, il vantaggio di alleggerire la pressione fiscale sui bilanci nazionali. Chi si sposta e trova lavoro altrove rende il finanziamento dello stato sociale meno oneroso, non rendendo più necessari i trasferimenti destinati a chi perde il lavoro”; è una mentalità degna del peggior tipo di burocrate, incapace di ogni considerazione di valore più generale.
Si tratta della stessa mentalità che Tito Boeri, per grettezza o mero interesse pubblicistico, mostra nel trattare la questione del rapporto tra immigrati e spesa sociale. Si tratta del passaggio a cui l’autore riserva la parte maggiore e migliore delle sciorinate contro i “politici populisti”; questi, dice Boeri, sono “mistificatori di professione”, i quali sostengono che la colpa dei tagli al welfare sia da attribuire agli immigrati. Ma, noi italiani, ci dobbiamo sentire fortunati ad avere un presidente dell’Inps che, facendo fede al ruolo squisitamente politico per il quale è stato nominato, si impegna a combattere simili affermazioni, appunto, politiche: “I dati, peraltro, ci dicono esattamente il contrario. In Italia, ad esempio, gli immigrati versano ogni anno otto miliardi di contributi sociali e ne ricevono tre in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa cinque miliardi per le casse dell’Inps”; ancora: “Tutti gli studi di cui siamo a conoscenza che hanno compiuto queste valutazioni in Europa, nell’ambito di modelli di contabilità generazionale, hanno concluso che il saldo netto è positivo”.
Insomma, per l’Inps gli immigrati sono un affare, un po’ come lo erano per Buzzi e Carminati. Ma, di venia, è pur lecito chiedersi quali siano gli immigrati di cui stiamo parlando: non sarebbe opportuno distinguere da una parte il professionista olandese che trova alloggio e locale commerciale a Cologno Monzese su Internet, li affitta, prepara la valigia, prende l’aereo ed arriva in Italia, e dall’altra il migrante che scommette la sua vita, magari costretto, su un catorcio in mezzo al Mediterraneo?
Tutto d’un tratto, Boeri pare finalmente aprire gli occhi e svegliarsi nel 2017: “L’immigrazione associata allo stato di rifugiato è molto diversa da quella economica per almeno tre motivi. Primo, origina da conflitti da cui si cerca di fuggire (…) In secondo luogo, i rifugiati solitamente arrivano per grandi ondate associate all’aprirsi di nuovi teatri di conflitto (…) Infine, la normativa è diversa. La domanda di asilo deve essere presentata all’arrivo, mentre l’immigrazione economica legale richiede generalmente che la domanda venga inoltrata prima di lasciare il paese d’origine. Inoltre, in attesa dell’accettazione della domanda, il richiedente asilo non può lavorare e perciò inevitabilmente riceve trasferimenti pubblici, dipende cioè dallo stato sociale senza potervi contribuire.”
Finalmente Boeri si è reso conto di questo aspetto dell’immigrazione, quello dell’ondata dei richiedenti asilo, che oggi, nel 2017, è assolutamente ed indubbiamente quello predominante. Si potrebbe obiettare che, come appare evidente dalle sue parole, Boeri consideri nella loro interezza i richiedenti asilo come profughi provenienti da teatri di guerra, e dunque meritevoli di accoglienza, non potendo cioè essere l’esito della domanda altro che l’accettazione; come noto la verità è tuttavia ben diversa, e il presidente dell’Inps la copre senza ragione plausibile: in Italia solo il 5% dei richiedenti asilo ottiene lo status di rifugiato (La Stampa, settembre 2016).
Ad ogni modo, a questo punto della lettura ero felice che Boeri passasse a considerare anche questo aspetto critico dell’immigrazione, e la mia curiosità intellettuale si accendeva di una nuova fiamma, pronta a concentrarsi sui dati che l’autore di lì a poco avrebbe offerto in merito all’onere affrontato dalle casse pubbliche per fronteggiare l’emergenza in parola; così da poter operare un confronto col guadagno in termini previdenziali precedentemente segnalato, e poter finalmente avere un quadro completo, esaustivo, onesto sull’effetto fiscale dell’immigrazione, intesa nell’ampio e generale significato che l’autore ha essa voluto conferire nel testo.
Questi dati nel testo di Boeri non ci sono. In rete si trovano fonti a bizzeffe a riguardo, ma non entrerò nella questione. In questa sede voglio solo esprimere la mia costernazione dinanzi la pochezza di stile e la meschinità intellettuale di un uomo a capo di un istituto così importante del mio Paese, che tra l’altro si prende anche il gusto di ergersi ad alabardiere nella battaglia contro i “mistificatori di professione”. In questa sede, ripeto, non ho alcun interesse a dimostrare se l’immigrazione nel suo insieme rappresenti un guadagno o meno per il Paese (si tratta di un discorso a tal punto complesso che, del resto, va probabilmente oltre i meri flussi di cassa da e per lo Stato); voglio solo segnalare l’agilità con cui Tito Boeri sostiene delle posizioni omettendo pezzi d’informazioni cruciali ai fini della completezza della trattazione dell’argomento, giungendo a conclusioni spacciate come definitive ma che di oggettivo, dato la loro incompletezza, non hanno assolutamente niente. Un giro di parole, un gioco di prestigio, insomma, che può essere buono ad ingannare qualche bambino e a farlo rimanere a bocca aperta; ma i cui trucchi palesi, banali e maldestri sono immediatamente evidenti ad un occhio appena più attento.
L’ultima segnalazione è la più rapida, ma anche la più clamorosa.
“In Italia solo tre euro su cento erogati per prestazioni sociali vanno al 10% più povero della popolazione, mentre spendiamo quasi cinque miliardi di euro in misure assistenziali destinate al 40% della popolazione con redditi più alti.”
Si tratta di un’ennesima frase-spot gettata tra le fauci del lettore veloce e distratto, la quale in sé non vuol dire assolutamente nulla. Un qualsiasi studente di economia, per una frase del genere, all’esame di matematica generale del primo anno, verrebbe stroncato di netto: se, infatti, il riferimento ai decili della popolazione ordinata in base al reddito rimane costante (10% più povero e 40% più ricco), la prima grandezza riferita all’erogazione di prestazioni sociali è relativa (tre euro su cento=3%), mentre la seconda è assoluta (cinque miliardi), e di conseguenza sono tra loro assolutamente non comparabili (a meno che sia fornita, cosa che non avviene, la misura dell’ammontare totale della spesa in misure assistenziali). L’affermazione è quindi priva di senso alcuno.
A parte che Boeri non ci concede nemmeno di conoscere la sorte di quel 50% di popolazione compreso tra il 10% più povero ed il 40% più ricco, confermandosi carente nella trattazione sotto il profilo della completezza.
In ultima analisi, vi consiglio di risparmiarvi i soldi e di evitare di acquistare “Populismo e stato sociale” di Tito Boeri: è un libricino di trentotto pagine, scritte male, per ingannare il lettore. Vi consiglio anche di diffidare dalle future esternazioni di un professionista che, verso il ruolo che ha l’onore di ricoprire, sta, come queste poche pagine mi sono state pienamente sufficienti a comprendere, in una relazione di disarmante inadeguatezza; così come, d’altronde, in una relazione di disarmante inadeguatezza verso le imponenti problematiche che la nostra epoca fronteggia sta l’attuale classe dirigente, che per coprire le proprie incapacità inventa populisti da combattere a destra e manca, e di cui Tito Boeri rappresenta un’espressione genuinissima.