Sanremo 2019 o la fortunata telegenicità di Claudio Baglioni

Di Giulio Menichelli

Finalmente la settimana del Festival è finita! “Finalmente”, sì, ma forse stavolta è un “finalmente” detto con meno sicurezza di altri anni. In fondo sono ancora nella memoria di tutti le non fortunatissime edizioni a direzione Conti, specialmente quella con il legnosissimo Gabriel Garko, oppure le precedenti con Fazio e la Littizzetto, noiosissime, come loro due. Negli ultimi due anni infatti, grazie alla guida incredibilmente buona di Claudio Baglioni, Sanremo è stato un evento leggero e godibile, in cui, nonostante qualche scivolone e qualche ospite sopra le righe, il garbo, l’intelligenza ed il buongusto hanno fatto da padroni.

Che Baglioni da acclamatissimo cantante si fosse trasformato in showman di successo è cosa nota da ben prima di Sanremo 2018: la sorprendente riuscita, valsa repliche e repliche, di Capitani Coraggiosi, grande evento televisivo del cantautore, con Gianni Morandi, aveva dimostrato già nel 2015 come Baglioni sia in grado di ben gestire anche il pubblico della quarta parete tenendo un certo garbo, ormai sempre più raro anche sugli schermi RAI.

Se nell’edizione 2018 della kermesse, che aveva proclamato vincitori Fabrizio Moro ed Ermal Meta con una canzone (giustamente) molto criticata – specialmente per la paternità –, il nostro direttore artistico si era tenuto quasi in disparte, lasciando molto più spazio ai due co-conduttori – il poliedrico Pierfrancesco Favino e la capacissima Michelle Hunziker –, in questa edizione ha voluto osare un po’ di più, far valere maggiormente la sua immensa carriera musicale, cantando in ogni spazio possibile, da solo o in duetto con praticamente tutti gli ospiti. Insomma, forse più che Sanremo lo show si sarebbe potuto intitolare Baglioni 2019. Ciononostante, grazie anche alla leggerezza di Claudio Bisio e alla incredibile capacità metamorfica di Virginia Raffaele, la conduzione è veramente ben riuscita, non facendo certo rimpiangere veline o bellocci del caso che, oltre a facce di marmo e farfalline, ben poco avevano da offrire all’evento.

Molti i partecipanti: ben 24 canzoni in gara, non tutte eccezionali, anzi, ma nel complesso ben più carine delle edizioni precedenti, anche se, al contrario di quelle, il livello generale è controbilanciato da un’assenza di interpretazioni fenomenali o di canzoni particolarmente splendenti. Nessuna Un giorno mi dirai (forse la canzone più bella del triennio) o Arrivedorci in questa edizione, ma neanche un tormentone come Una vita in vacanza se non, forse, per Rolls Royce, che tanto ha fatto parlare e della quale dirò qualcosa oltre.

Ciò che ha accomunato tutte le canzoni è una generale buona scrittura, tanto a livello di musica, quanto di testo. Le interpretazioni non tutte brillanti: forse la storia più triste è quella di Arisa, che sfortunatamente nell’ultima sera non si sentiva così bene come diceva nella canzone, e si sentiva. Che ironia.

Tra le canzoni più interessanti sicuramente la vincitrice Soldi, Rolls Royce, Nonno Hollywood. Tra quelle che sentiremo di più I tuoi particolari (già vincitrice del premio TIMmusic), La ragazza con il cuore di latta, Parole nuove. Tra le meno interessanti sicuramente Nino D’Angelo e la Tatangelo, con due canzoncine decisamente non innovative e Il Volo, decisamente troppo nazionalpopolare. E Cristicchi? E la Bertè? Procediamo con ordine.

Simone Cristicchi dopo sei anni si ripresenta nel mondo della musica con una canzone impegnata, molto impegnata, troppo impegnata. Incredibilmente tenera ma terribilmente pesante e comunque non abbastanza densa di significato da giustificarlo. Un bel ritorno, insomma, ma si poteva fare meglio.

Tutt’altro discorso si può fare per Loredana Bertè che con Cosa ti aspetti da me torna alla ribalta con un’energia tanto notevole quanto inaspettata. La canzone, a mio parere, non è un granché, ma è sicuramente la più apprezzata dal pubblico dell’Ariston e forse una delle più apprezzate in generale. Poi, a dir la verità, io non amo particolarmente nemmeno la sua voce. Giusto stamattina dicevo che mi ricorda non troppo vagamente i più beceri cori della Roma. Tuttavia, la sua buona performance è innegabile, anche se il tramonto è, a mio avviso, altrettanto inevitabile.

Tre i casi più discussi del Festival, uno già nel corso delle serate, due dopo la conclusione.

Il primo è la già citata canzone di Achille Lauro, Rolls Royce. Innanzitutto, il primo problema era il personaggio. Achille Lauro è un trapper, più simile a Young Signorino che a Davy Crockett, con la faccia disegnata come il primo e con la stessa gamma di tematiche, e per questo, specie dopo tutta la questione su Sfera Ebbasta, non era simpatico a buona parte dell’opinione pubblica. Secondo problema, il brano. Ha tardato la giusta lettura del brano, arrivata solo nella seconda serata e proposta, ahimè, dai conduttori di Striscia la Notizia. È innegabile, infatti, che il brano parli di droga. Scandalo! Il Ministro dell’Interno, primo critico, d’altronde, poche settimane fa, a caccia di consensi, mica aveva ricordato (male interpretando) Fabrizio De André, grande campione di testi controversi! Altrettanto risibile è, però, il tentativo di buttarla in caciara dell’autore e del direttore artistico, che sostenevano che “a 27 come Amy” fosse un verso sullo status che si ha quando si possiede una Rolls, e che il collegamento con l’overdose della Winehouse fosse assolutamente frutto della malizia dello spettatore. Ad ogni modo, si tratta di una canzone molto interessante, forse perché supera lo stretto rappismo della trap buttandosi su un rock quasi pop, con un risultato piacevole.

Secondo caso è quello del vincitore, Mahmood e del televoto. Da sempre è noto come la classifica sia frutto della combinazione di tre fattori di voto: gli spettatori da casa, la sala stampa e la giuria degli esperti. Ciò che ha fatto scalpore è che Mahmood ha ottenuto un risultato davvero basso con il televoto: solo il 14,1%, contro il 46,5 di Ultimo e il 39,4 di Il Volo. Di qui le grandi grida all’ingiustizia, e di qui l’ennesima politicizzazione e l’ennesimo motivo di conflittualità tra il mondo dei professoroni – cioè, in questo caso, le giurie – e il popolo da casa, che aveva espresso tutt’altra opinione. Tanto più che Mahmood è figlio di un egiziano, quindi almeno un italiano di serie B, e di conseguenza la sua non potrebbe essere definita musica italiana. Peccato, perché agli effetti legali Mahmood è italiano almeno quanto me, e ad ogni modo si trattava di una bella canzone, peraltro in italiano.

Prima di passare al terzo caso, voglio spendere un’altra parola su Soldi e su quello che secondo me è il motivo del suo successo. Una decina di anni fa avevo un insegnante di trombone che suonava nella Banda dell’Esercito, e mi invitò a partecipare ad un suo concerto. Di quel concerto ricordo due cose: la prima è il brano per il quale ero stato invitato, ossia la composizione del mio maestro, allora eseguita per la prima volta. La seconda è invece un brano di cui non ricordo né titolo né melodia, ma solo un piccolo aspetto. Ad un certo punto dell’esecuzione, infatti, tutta la banda toglieva gli strumenti dalla bocca e diceva a gran voce “piripiripiripiripiripiripiripiri”, dopodiché, rimessi gli strumenti in bocca, continuava a suonare. In quel momento, ricordo, l’intera sala è scoppiata in una fragorosa risata, e, alla fine del brano, ha ricompensato gli esecutori con l’applauso più forte e partecipato che io ricordi. Un’arguzia del compositore quella, insomma, che ha fatto spettacolo. Mahmood, o Dardust, poco importa, a modo suo ha fatto qualcosa di simile. Quel battito di mani dell’orchestra, senza strumenti, se può non dare alcun contributo musicale significativo, sicuramente contribuisce al risultato dell’esibizione. Si tratta infatti di un momento di spettacolo, che a Sanremo, giustamente, risulta vincente.

Veniamo ora al terzo caso: si tratta della reazione dei grandi sconfitti: Ultimo, acclamato da molti, e Loredana Bertè, acclamata sicuramente dall’Ariston. Il primo, secondo classificato, ha iniziato una polemica inutile, anche se in parte condivisibile, con i giornalisti nella conferenza stampa subito successiva, in cui si è rivolto male agli stessi e, soprattutto, ha compiuto il terribile crimine di chiamare Mahmood il ragazzo, passando così per uno spocchioso egocentrico che pensava di avere la vittoria in tasca. Un siparietto davvero buffo, che purtroppo però prelude a svariate considerazioni sulla piccolezza della stampa di oggi. La Bertè, invece, ha fatto parlare di sé solo oggi pomeriggio, e, fortunatamente, non moltissimo, in quanto non si è presentata a Domenica In perché chiusa in un silenzio stampa di delusione.

Ad ogni modo, nonostante si possa dire tanto di queste e altre cose, tra cui lo scivolone sui Casamonica, il saluto con la mano a Bocelli ed altro, in fin dei conti si può dire che questo Sanremo è stato piuttosto piacevole. Personalmente, anche se sono piuttosto scettico, soprattutto vista l’asprità del dibattito immediatamente precedente allo show, spero che Baglioni possa rimanere alla direzione almeno per un altro anno. Mi eviterebbe, quantomeno, di voler schivare il Festival ad ogni costo.

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