Ferragosto 2021. Quella che per la stragrande maggioranza degli italiani è una felice giornata estiva, per il popolo afghano è la più buia degli ultimi vent’anni. Immagini drammatiche giungono da Kabul. I Talebani conquistano la capitale, si insediano nei palazzi del potere e innalzano la bandiera del nuovo Emirato Islamico. Il presidente Ghani è fuggito, così come i più alti vertici politici e militari della nazione. I corpi diplomatici vengono evacuati e si accavallano, l’una dopo l’altra, le voci dei grandi leader politici internazionali. L’aria che si respira nella capitale è pesante e le domande che ci poniamo sono molte: la scelta maturata quest’anno di ritirare i contingenti militari statunitensi dall’Afghanistan è stata corretta? Che ne sarà “dopo”? Che ne sarà dei diritti delle donne e degli uomini afghani?
Ciò che è avvenuto nei giorni scorsi a Kabul è il frutto di un lento processo iniziato nei primi mesi del 2020, quando l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si accordava con i Talebani per porre fine all’occupazione militare USA in Afghanistan cominciata l’8 ottobre 2001, in risposta ai fatti dell’11 settembre. Trump, con gli accordi di Doha, mirava a creare la pace tra gli Stati Uniti e l’“Emirato Islamico”. Gli americani acconsentivano al ritiro dei contingenti militari ed in cambio i Talebani promettevano di non minacciare in futuro la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ciò che sorprende è che il neopresidente americano Joe Biden ha proseguito tale linea politica. Lo stesso, con il silenzio assordante dei media, ha acconsentito definitivamente al ritiro militare. Da quel momento i Talebani hanno riconquistato città dopo città, sino ad arrivare a Kabul. Secondo le prime stime la presa della capitale sarebbe dovuta avvenire da lì a 6-12 mesi. L’11 di Agosto alcuni ufficiali dell’esercito statunitense rinnovavano tale stima, ipotizzando stavolta 90 giorni. Kabul, invece, è stata presa in solo 4 giorni, alterando tutte le stime precedentemente fatte. I Talebani tornano padroni. Nuovamente si spara in pubblica piazza. Il suono degli spari è forte, supera di gran lunga quello del pianto incessante dei bambini, delle grida umane. L’aria acre che si respira è il simbolo della sconfitta di un popolo. Sugli edifici, al posto della bandiera americana, viene innalzata quella dell’Emirato Islamico. Le immagini che giungono da Kabul sono agghiaccianti. Le ambasciate vengono evacuate, in fuga il corpo diplomatico statunitense. La situazione più drammatica è all’aeroporto della capitale. La folla si accalca, cerca di fuggire. Si strattonano gli uni con gli altri per salire su un qualsiasi aereo che porti lontano dal paese. Uno degli aerei della US AIR FORCE si affretta ad accelerare sulla pista di partenza. Si da alla fuga disperata, onde evitare la cieca furia talebana. Alcune persone cercano di aggrapparvisi, stringendo probabilmente qualche maniglia sulle ruote. Sulla pista di partenza, a causa della ressa generale, perderanno la vita 12 uomini. L’aereo riesce poi a decollare e, con esso, i disperati che sono riusciti ad aggrapparvisi. Dopo pochi secondi si conclude la loro vita. Cadono dall’aereo in volo. Uno dopo l’altro si lasciano cadere. Piombano nel vuoto, abbandonati al loro tragico destino. Sorge spontaneo il ricordo degli uomini che saltavano nel vuoto da ciò che rimaneva delle Torri Gemelle nel 2001. In quell’anno, però, non c’era possibilità di scelta. Saltare o meno, si era destinati a morire. Qui, invece, una alternativa c’è eccome: continuare a vivere e sottostare al regime talebano. Nonostante ciò quegli uomini, probabilmente per agonia, disperazione, hanno tentato l’estremo atto di libertà, purtroppo fallendo.
I giorni successivi tuonano le voci dei presidenti delle nazioni occidentali, dalla Grecia agli Stati Uniti. La Merkel parla di un’ “operazione fallita” in Afghanistan, Macron inneggia ai cordogli umanitari. Johnson invoca il G7 e Draghi avverte che la vita dei 53 soldati italiani deceduti durante il ventennio in Afghanistan non rimarrà priva di valore.
Parla anche Joe Biden. Dice che la scelta di ritirare i contingenti militari USA è stata più che corretta e non si tornerà indietro. Afferma inoltre che il lavoro svolto dagli USA e dai suoi alleati in Afghanistan, durante l’ultimo ventennio, sia stato indirizzato non tanto alla democratizzazione del predetto stato (come credono in tanti), quanto alla mera prevenzione del terrorismo di matrice islamica. La direzione presa dagli Stati Uniti ha senza dubbio nuovamente gettato instabilità sullo scacchiere geopolitico internazionale. L’instabilità politica in Afghanistan non avrà necessariamente un impatto sugli americani, ma potrebbe rappresentare un serio problema per i loro antagonisti, in particolare Russia e Cina, per non dimenticare Iran e Pakistan dove l’ira contro gli USA è tutt’altro che sopita. Washington ha scaricato la responsabilità sui suoi avversari. Oggi i talebani non si possono definire solamente ribelli, sono qualcosa di più. Vogliono diventare un vero e proprio attore politico internazionale. E sono stati proprio gli americani a concedergli questa possibilità con la trattativa di Doha.
In questi ultimi giorni sono state numerose le frasi del tipo: l’“Occidente ha fallito”, o ancora “l’Unione Europea anche questa volta non ha dato prova delle sue capacità”. A detta di molti ad aver fallito è stata la fragile politica di occidentalizzazione adottata dagli Stati Uniti, dai tempi del Vietnam ad oggi, nei paesi vicino e medio-orientali. Dall’escalation di eventi che si sono susseguiti da inizio anno sino ad oggi si può osservare che gli americani e i loro alleati se ne sono andati senza lasciare niente di duraturo in Afghanistan. Non hanno lasciato alcuna forma di governo, non hanno risolto il problema della violenta compressione dei diritti umani, non hanno “costruito” laddove ve ne era bisogno. E se costruire significa tracciare un solco, collaborare con il territorio, imprimere il proprio segno in un luogo che ne resterà modificato per sempre, si può dire con certezza che non hanno costruito nulla. E’ vero, sarebbe stato comunque impensabile lasciare un segno indelebile in soli vent’anni in un paese come l’Afghanistan. Non si sarebbe potuto fare, per ovvie e logiche ragioni. Ma fare in modo che, in un giorno solo, le donne e gli uomini afghani non venissero privati dei pochi diritti fino a quel momento faticosamente ottenuti, questo si che si poteva.
In Afghanistan i diritti di uomini e donne sono cambiati nettamente nel corso degli ultimi anni, soprattutto dopo il 2001, con la caduta del regime talebano. Dopo l’entrata in vigore della costituzione afghana del 2004 i diritti delle donne erano tornati lentamente a fiorire e le stesse avevano iniziato a godere di un migliore status rispetto al passato. Ma, nonostante i lenti progressi, l’Afghanistan era comunque ancora considerato uno dei paesi peggiori in cui essere donna. Pochi giorni fa, con il ritorno dei Talebani al potere, uomini e donne afghane sono stati privati dei più basilari diritti e sono ricominciate le preoccupazioni per quanto concerne la futura condizione degli stessi. L’emancipazione femminile delle donne potrebbe quindi essere più difficile ed ostacolata. Come riferisce il tweet del portavoce Zabihullah Mujahid, i Talebani fanno sapere che ci sarà un regime di sicurezza e di pace, e che le donne potranno “fare carriera” solamente sottostando alle rigide regole della Sharia. Nonostante le promesse fatte dai Talebani, alcuni di loro hanno continuato a molestare le donne per strada, a vietare loro l’accesso ad alcune istituzioni, ad opprimerle.
La compressione dei diritti umani è un problema che attanaglia l’Afghanistan, come anche altri paesi islamici, da sempre. E per comprendere qual è, almeno in parte, la causa di tale problema, è doveroso fare luce su un dato di fatto molto rilevante: l’Islam, oltre ad essere una religione, è anche e sopratutto un “fenomeno politico”. Quando si parla del rapporto che intercorre tra Islam e diritti umani non si può prescindere da questo fatto. Ma questo non tutti lo vedono, e altri non lo vogliono vedere. Una delle causa della limitazione dei diritti in Afghanistan risiede perciò, in parte, proprio in questa miopia. Se oggi le ragazze afghane della nostra età non possono vedere la bellezza che c’è al di là del loro velo, è anche per colpa di questa comune cecità.
Difatti in Afghanistan, come del resto in tutti i paesi islamici, i rigidi dogmi espressi nel Corano sono il fondamento della politica. Ogni diritto, politico, sociale, o qualunque esso sia, è sottoposto alla legge islamica. Il Corano è al di sopra di tutto, anche dei diritti umani. E’ la religione che plasma la legge, i diritti. E’ il Corano il legislatore supremo. E lo stesso è di per se sempre incompatibile con i diritti e le libertà fondamentali tipiche di ogni civiltà democratica. È difficile per l’Islam accettare l’idea di sradicare ogni forma di discriminazione, dal momento che considera la fede un valore giuridico a tutti gli effetti. Si ritiene che l’Occidente non abbia mai contrastato seriamente, con la ragione, con la cultura, l’oscurantismo islamico. Tutto quello che vediamo oggi è stato, in un certo senso, permesso. Si è stati complici di questo assassinio di diritti. Pensiamo all’ONU, la quale nel 1981 proclamava la “Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo”, una valida alternativa alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo mai sottoscritta dai paesi islamici. Nel preambolo della suddetta dichiarazione si afferma che: “I diritti umani nell’Islam sono fermamente collegati all’idea che Dio, e Lui solo, sia il Legislatore, la fonte di tutti i diritti umani”. Di “Universale” la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha quindi ben poco, mancando all’appello tutti i paesi islamici che invece hanno la “loro” di Dichiarazione.
Tale Legge Suprema, che porta con se alterati diritti, viene rispettata ciecamente dai movimenti islamici più radicali, quali ad esempio i Talebani che negli ultimi giorni hanno ripreso il potere. Perciò l’Islam più radicale, quello che priva i cittadini delle più basilari libertà, andrebbe affrontato “anche” con le armi della politica. Solo se si comprende che l’Islam, in tutte le sue sfaccettature, è il Corano; solo se si comprende che l’Islam e il Corano sono due realtà inscindibili; solo se si comprende che l’Islam è anche un fenomeno politico, si può iniziare a lottare concretamente per la “vera” universalità dei diritti umani. Non bisogna però cadere nell’errore della generalizzazione. La “miopia” generale di cui parlavo poc’anzi rimane solo uno dei tantissimi fattori che hanno portato e stanno portando alla limitazione (e nei casi peggiori assenza) dei diritti fondamentali in Afghanistan. Non mancano infatti importanti correnti di pensiero contemporaneo, in contrapposizione ai fondamentalisti, che vorrebbero una reinterpretazione in chiave moderna dei principi contenuti nel corano e un avvicinamento alle moderne forme di democrazia, ammettendo le norme del diritto internazionale sui diritti umani.
Tutto quello che ho visto in questi giorni mi ha colpito profondamente. Per questo motivo mi sono imposto di scrivere, almeno stavolta. Credo che le immagini di queste giornate rimarranno indelebili nella mia mente. E spero vivamente anche in quella di chi costantemente, forse per scarsa percezione delle cose, passa ogni giornata della propria vita a lamentarsi non riconoscendo, nel possesso di ciò che ha, una ricchezza infinita. Mi rendo conto però che le immagini sono pur sempre immagini. Sono frammenti, sagome, colori che appaiono ai nostri occhi. E’ vero, possono suscitare emozioni, ma non sono la realtà. Chi osserva dall’esterno, per quanto toccato, non avrà comunque provato la disperazione di chi tutto questo lo ha vissuto sulla propria pelle.
Nel frattempo, mentre parliamo, il rumore degli spari dei kalashnikov torna a squarciare quel tenue velo di silenzio che per un ventennio ha accompagnato la vita quotidiana di milioni di cittadini afghani, donne e bambini che speravano e sperano ancora in un futuro fatto della stessa materia dei sogni. Le lancette dell’orologio della storia tornano indietro di venti anni. Tornano al severo regime talebano degli anni ’90. Tornano alla severa interpretazione del Corano. Tornano alle esecuzioni pubbliche per strada, all’obbligo della barba per gli uomini, al divieto di musica e televisione, all’obbligo di indossare sempre il burqa. Torna il netto rifiuto di abbracciare quel modello che da molti anni in Occidente chiamiamo “civiltà”.