“l bel paese / ch’Appennin parte, e ’l mar circonda e l’Alpe” (Canzoniere, CXLVI), “Del bel paese là dove ‘l sì sona” (Inferno, XXXIII,80); sono questi i versi di Dante e di Petrarca che hanno coniato il mito dell’Italia quale “bel paese”, infatti, in questo è possibile trovare, in poche centinaia di chilometri, meraviglie di ogni genere.
L’Italia è infatti disseminata di borghi accoglienti dove la tradizione si fonde con il presente. In questi, è possibile udire ancora i dialetti passeggiando per i vicoli e sentire i profumi provenienti dalle cucine delle nonne, sembra riecheggino le storie di coloro che li hanno abitati.
Nel corso degli anni passati, però, la popolazione ha “trascurato” questi luoghi trasferendosi nelle città alla ricerca di migliori opportunità lavorative. È proprio questo il fenomeno storico che viene descritto tra le strofe del “Ragazzo della via Gluck” di Adriano Celentano.
Negli ultimi tempi, grazie ad iniziative proposte da varie associazioni, come quella dei “borghi più belli d’Italia”, è nata nella popolazione la volontà di riqualificare il patrimonio architettonico dei borghi italiani e rilanciarne le prospettive sia a livello abitativo che turistico, al fine di incentivare il ripopolamento di luoghi di grande suggestione ormai abbandonati.
Credo che il tema del ripopolamento dei piccoli comuni italiani sia di fondamentale importanza e, da giovane della “nuova generazione”, ho voluto intervistare una personalità esperta in materia, il Direttore People&Culture Francesco Maria Spanò, per poter comprendere sia come si è arrivati a tale sostanziale diminuzione demografica sia quali possono essere i mezzi per riportare i borghi italiani a contare un modesto numero di residenti, come in passato.
Dalla rivoluzione industriale in poi le città sono iniziate a sorgere laddove la domanda di lavoro risultava maggiore, comportando la nascita del fenomeno dell’urbanesimo con la conseguente riduzione della popolazione di interi paesi.
Crede che dare la possibilità a lavoratori di aziende di svolgere la propria attività in modalità agile possa contrastare il medesimo esodo demografico che si sta verificando anche oggigiorno?
Direttore People&Culture Francesco Maria Spanò: “Esodo non vuol dire che le città si spopoleranno. L’evoluzione tecnologica e informatica consentirà di sicuro una minore stanzialità dei lavoratori. Si poteva parlare di esodo tra gli anni 50’ e 60’, quando 9 milioni di persone hanno cambiato vita emigrando dal nord al sud Italia. Si potrebbe parlare di esodo anche con riferimento a ciò che sta accadde a Milano agli inizi del loockdown quando molte persone lasciarono la città, è durato però pochi mesi. Sicuramente il post-pandemia, oltre che un ritorno alla realtà precedente, ha portato una novità: lo smart working, infatti. Di sicuro questo è utilizzato più di prima e alcune regioni stanno cercando di creare strutture volte a favorire il fenomeno, anche con investimenti da parte di privati cittadini del posto.”
Le varie rivoluzioni industriali hanno spinto, creando con le fabbriche nuovi posti di lavoro, gli uomini che prima vivevano grazie alle attività rurali, a sentire l’esigenza di “respirare il cemento” delle città. Sicuramente oggi vi è però una sorta di “inversione di tendenza” e prediligere un posto più tranquillo rispetto al caos delle metropoli è un desiderio che accomuna più individui di quanto pensiamo.
Cosa ne pensa dei city quitters? Si trova in accordo con la loro decisione di abbandonare il centro urbano per ritornare a contatto con la natura, sposando ritmi più lenti e dimenticando la frenesia della città?
F.M.S.: “Certo, vi è una parte della popolazione che decide di vivere in stretto rapporto con la natura, ma dobbiamo rimarcare che questo rapporto bucolico è sempre stato un fenomeno umano.
Basti pensare che negli anni 1829,1848 e 1890, con le varie rivoluzioni industriali, Londra è passata da un milione e mezzo di abitanti a sei milioni.”
Sono stati proposti, negli anni, molti progetti volti a permettere la realizzazione del desiderio di riscoprire la tranquilla vita agreste, tra questi vi è la vendita di abitazioni abbandonate al prezzo simbolico di 1 euro. Lei cosa ne pensa?
F.M.S: “Ritengo che non sia sicuramente l’unica modalità per incentivare il ripopolamento dei piccoli comuni, ma può sicuramente costituire una possibile e valida soluzione. L’idea da parte degli amministratori locali, già da diversi anni, di vendere un immobile ad 1 euro, nasce dalla disperazione di alcuni sindaci che si sono trovati con un patrimonio immobiliare abbandonato. Ci troviamo dinanzi a paesi che hanno subito una fortissima emigrazione di origini antiche, che, infatti, parte già dall’Unità d’Italia. A questa è seguita l’emigrazione post-bellica che accade negli anni 50’ e arriva a percentuali ancora più elevate negli anni 60’ con il boom economico. Esistono complessi immobiliari, sia nei centri urbani che nelle campagne che diventano fatiscenti ed entrano nella disponibilità dei comuni e delle famiglie del posto che non hanno soldi per restaurarle. L’acquisto ad prezzo simbolico può essere una buona soluzione per avere un’abitazione, ad esempio, in piccoli borghi di montagna, evitando di compiere grandi investimenti immobiliari. Il legislatore ha inoltre previsto anche altri finanziamenti, come ad esempio bonus fiscali, per stimolare la ricostruzione di stabili fatiscenti.”
Tra le iniziative volte ad incentivare il ripopolamento progressivo e permanente nei piccoli comuni, sicuramente acquista un posto centrale la proposta di legge, promossa dallo stesso Avv. e Direttore People&Culture Francesco Maria Spanò, in qualità di membro del Cts del club “I borghi più belli d’Italia”, tale proposta ha come obiettivo principale quello di garantire lo sviluppo dello smart working in tali località.
F.M.S: “Dopo due anni dalla proposta, la prima riflessione da fare è che di sicuro non si è ancora arrivati ad una svolta decisiva a causa della politica. Questa è una legge che deve: incentivare lo smart working stabilendone una durata per 5 anni, favorire nei piccoli comuni l’accoglienza di questi lavoratori, stanziare finanziamenti e organizzare gli enti locali. Risulta essere un fenomeno complesso, che vede il coinvolgimento anche di un numero diverso di Ministeri. Servono forze politiche che decidono di riprendere questo argomento, che è stato si presentato al Senato e ha avuto un grande dibattito nei media e negli ambienti relativi al mondo del lavoro. Senza un dibattito parlamentare o un Ministero che voglia portare avanti l’argomento, la cosa rimane una bella proposta di legge. È un argomento non centrale nell’agenda della politica e finché il Ministro del Lavoro o la Commissione che si occupa di lavoro non inizierà a trattare il tema del lavoro agile con una nuova legge, non può trovare posto neppure una proposta che vuole far uso dello strumento al fine di una ripopolazione dei piccoli comuni.”
Non sorprende inoltre che, nel resto d’Europa molti paesi hanno favorito lo smart working internazionale prevedendo, per quei lavoratori che adottano questa modalità, una serie di agevolazioni fiscali, specie se scelgono di andare a vivere stabilmente nelle nazioni che hanno aderito al progetto, è questo il caso della Slovenia.
Ritiene che in Italia, tra i vari progetti per favorire la ripopolazione nei borghi, possa essere preso in considerazione il modello francese applicato alla città di Brest, dove si è concluso un contratto di collaborazione tra grande città e borgo storico in modo da delocalizzare la vita urbana per periodi più ampi del fine settimana e diluire la presenza negli uffici in città?
F.M.S: “Assolutamente sì, il tema si collega anche alla decisione, presa da alcune aziende e banche per lo più site nel nord Italia, di accorciare la settimana lavorativa prevedendo la possibilità di lavorare alcuni giorni in smart working. Si stanno verificando dei fenomeni che vanno al di là dello smart working e che vogliono ridurre la presenza in azienda e l’orario di lavoro, purché venga garantita la produzione nei termini di efficienza. Si sta creando un mondo più elastico grazie all’evoluzione tecnologica, una realtà che dà maggiore libertà ai lavoratori.”
Sicuramente in Italia, causa Covid, è cresciuto in maniera sostanziale il ricorso, specie da parte di grandi aziende, allo strumento del lavoro agile.
Quanto ritiene che la pandemia abbia influito sulla decisione di liberi professionisti di svolgere la propria attività lavorativa da remoto, scegliendo di migrare verso mete in grado di offrire una maggiore qualità della vita?
F.M.S: “Tanto, è stato possibile verificare il fenomeno grazie ad una serie di statistiche fatte dal Politecnico di Milano che ha un osservatorio sullo smart working. Inoltre, anche associazioni come quella dei Borghi più belli d’Italia o ANCI possiedono osservatori della mobilità lavorativa.
Si è inoltre verificato che molti lavoratori sono tornati nei loro paesi di origine o hanno deciso di lavorare in piccoli borghi dal paesaggio suggestivo. Preme sottolineare che in alcune aziende lo smart working è rimasto come modello lavorativo, questo ha sicuramente indotto a spostarsi in piccoli comuni circa 60.000-90.000 lavoratori italiani.”
Lavorare in smart working richiede contributo fattivo da parte delle amministrazioni comunali per creare degli hub sul territorio…ma come?
F.M.S: “Smart working non significa solo lavorare da casa, ma significa svolgere le proprie mansioni lavorative in posti adatti, che possono essere di sicuro anche un posto al mare, ma soprattutto strutture che i lavoratori possono raggiungere a piedi, anche da casa, e che possono ospitarli momentaneamente. Gli “hub” sono luoghi in cui ci si reca, magari dopo aver prenotato, per due ore o mezza giornata e si porta il computer. Smart working non significa non lavorare e rimanere a casa, può essere uno scegliere un luogo terzo adatto ad ospitare gli individui temporaneamente dove si verificano fenomeni di co-working. Nelle aree di co-working ci sono diversi lavoratori che vengono da diverse aziende: vi è l’ingegnere, il giornalista, l’informatico etc. che stanno insieme, hanno interessi diversi, ma si socializza e si arriva a creare laboratori di creatività dove possono nascere anche delle start-up.
È interessante notare che, per incentivare il fenomeno, in America si dà un bonus di spesa affinché il lavoratore affitti locali per non stare a casa. Così anche le aziende risparmiano non dovendo pagare la luce, un affitto,”
È interessante citare il progetto volto alla realizzazione di una rete diffusa in Italia di 250 spazi di co-working all’interno del patrimonio storico di Poste Italiane.
Di sicuro quando viene chiesto ai Comuni di collaborare al progetto di ripopolamento si sottintende che questi debbano riuscire a migliorare anche i pubblici servizi, in quanto, coloro che si trasferiscono nei borghi provengono da tutte quelle “comodità cittadine”. I nuovi abitanti porteranno lavoro, ricchezza ed energia a sufficienza per poter indirizzare le amministrazioni alla realizzazione di tali obiettivi?
F.M.S: “Anche nella legge vi è scritto che i piccoli borghi devono sforzarsi di utilizzare le vecchie abazie, le vecchie chiese, scuole, palazzi, come posti adatti ad ospitare questi lavoratori. Se mi trasferisco in un paesino dell’Abruzzo ma ho la rete wireless potente solo in casa e non ho posti per fare riunioni, è chiaro che sono disincentivato a lavorare da lì.
La legge propone di dare 5 anni di smart working, la persona che una tale offerta magari cambia la residenza, fa un investimento e sposta anche tutto il resto della famiglia. Se il periodo di smart working fosse minore diminuirebbero i soggetti disposti a fare questo investimento.
Trasferirsi in un borgo è più una scelta di qualità di vita, se riduci i servizi fondamentali non tutti sono disposti a spostarsi.”
Uno degli argomenti più dibattuti al giorno d’oggi è sicuramente quello dell’inquinamento ambientale e delle misure che vengono prese sia a livello nazionale che sovranazionale. Il trasferimento di un significativo numero di abitanti dalle grandi metropoli ai piccoli borghi può avere un impatto positivo sul tale tema?
F.M.S: “Non credo che si possa affermare che grazie al fenomeno del ripopolamento dei borghi sia possibile diminuire l’impatto dell’inquinamento ambientale nelle metropoli. Questo perché il trasferimento di persone non sarà quantitativamente significativo. Per poter rispondere in senso affermativo alla domanda posta possiamo senza dubbio affermare che sarebbe possibile ridurre l’inquinamento se le persone che lavorano in smart working, ad esempio, non usassero più i mezzi di trasporto per recarsi a lavoro.”
In conclusione, mi domando se, i vari programmi pensati, riusciranno ad incrementare la popolazione nei piccoli comuni, rianimando il cuore degli stessi e riempendo di allegria gli stretti vicoli caratteristici.
Mi auspico di sì, soprattutto perché ritengo sia importante valorizzare il patrimonio culturale della nostra amata Italia e d’altronde, chi non amerebbe poter vivere in questi luoghi così magici?