“ʾehyehʾašerʾehyeh (Io sono Colui che sono)”. Così ricordò di aver detto, poi aggiunse: “E se quella tua di oggi è ribellione contro il più antico dei miei volti e avverso la più arcaica delle mie leggi, ricordati che sono Io ad averti creato ribelle”.
La trama della vita e del reale sta scritta con linguaggi diversi. Tra loro è la chiave di uno dei più grandi enigmi letterari e simboli di ogni secolo. Martin Buber, teologo ebraico, sostenne che non univoca nei mezzi e nell’essenza è la manifestazione del divino nel mondo. Dio si rivelerebbe attraverso misure (midda, in chiave esegetica) di intensità diversa e rivolte, in segno talora opposto, all’interno di un unitario ed ininterrotto processo di creazione. Quale mente, crediamo noi, che elabori come linguaggio il flusso ininterrotto della realtà, quella divina si serve di una middot (misura) della propria essenza piuttosto che di un’altra per tracciare una tipologia delle linee del quadro complessivo. Gli esempi più alti di sacrificio che la storia ricorda, le pagine profonde delle lettere di ogni secolo e Virgilio e l’amore, per chi ama, e tanto altro ancora: tale sarebbe il disegnoed il profilo delle midda più elevate edelle più profonde. Tuttavia altra è l’essenza, la radice oscura della misura prima, la forza primordiale che fa emergere i pensieri nel flusso della creazione dando loro la spietata tenacia di rimaner aggrappati ad un brandello di esistenza piuttosto che ricadere nella dimenticanza del Dio e scomparire quindi per sempre. Alla ricerca della brutale forma della prima esistenza partì una nave ed era chiamata: Pequod.Come facilmente si comprenderà, il racconto di Hermann Melville ha radici profonde nei testi biblici e tali emergono fin dai nomi dei personaggi (Ismaele, figlio di Abramo e della schiava Agar; Achab, il re idolatra) fino ai racconti che si intrecciano con la trama (la storia del libro di Giona), fino ancora all’andamento stesso, a quel procedere che si insinua nei dettagli dell’attività della pesca e della caccia. Un poema sacro, così lo definì Cesare Pavese, il suo primo traduttore. Sacro, titanico, non solo ma un viaggio teologico anche, che condurrà un equipaggio di uomini nella scoperta del più antico volto del Dio Leviatano. Il primo dei connotati che guidano dal simbolo all’arcano da cui questo ha origine è la sua mole, la brutale immensità del più grande degli animali, il capodoglio. Questi, poi, ha al suo interno, preziosissima sostanza, lo spermaceti (motivo della sua caccia), dal cui olio, la luce. Ancora, egli solca il mare, quell’oceano immenso il cui richiamo anche lontano giunge agli uomini su ogni terra, infondendo loro, tale è descritto, uno stupore quasi mistico, il gioco di sguardi perduti in orizzonti senza fine ed il desiderio di partire, di lasciare una casa per andare ancora una volta un poco più oltre, per dar fede, aver fede (emuna, in ebraico) nell’oscuro richiamo. La fonte di luce che si insegue, allora, è un animale ed è bianco, puro come la prima legge, la misura (middot) più arcaica, la meno perfetta, quella che regola in assenza di ogni altra il logos basilare del disegno creativo. Schopenhauer la chiamò Volontà e la radice è la stessa: essa rispecchia il cieco desidero di esserci, lo stimolo primo del respiro, l’impulso della fame ed il suo morso. Essa lega ogni creatura e trascina gli animali nel divorarsi tra loro e regola l’oscuro sostrato della psiche umana. Un mammifero bianco come la morte ne è stato elevato a simbolo e l’ossessione della sua figura porta con sé quanto le società rimuovono, quanto il vivere civile nasconde, doloroso orpello. Anche chiudendo gli occhi la si immagina, verità e orrore primo, nuotare negli oceani mentre le acque con un tonfo scuote la sua coda, insonne, sorda, come un vecchio rimorso, un vizio assurdo (Pavese) e con sé trascina nel profondo le cose che amiamo e che pure a quella legge stessa, che bestemmia sarebbe dire ingiusta, sono sottoposte. La legge prima dell’ingranaggio sopprime la bellezza che il mondo crea, così come nel modo medesimo morì Billy Budd (nel racconto omonimo di Melville), il bel fanciullo in fiore. La verità è che la volontà di esistere non è che l’altro volto della morte che un mostro medesimo insieme disvela.Ed il Leviatanico dio Macchina resse con scettro di ferro il regno di tutte le cose che desiderano essere. L’America dell’Ottocento si trovò orfana del romanticismo letterario così fiorente in Europa. Nacque, da similare ricerca del sublime nella natura, un altro movimento letterario chiamato trascendentalismo. La fuga da una società ipocrita spinge l’animo nobile nella ricerca della saggezza nei boschi, foreste antiche e colme di significato. Emerson, Henry David Thoreau scrissero del legame di ogni cosa del mondo puro con valori più elevati che le trascendono (da cui trascendentalismo), elevazione per mezzo di simboli. Così ugualmente simbolica si fa la struttura del racconto ed una nave costruita con ossa di balene solca un mare senza fine in cerca del suo significato e della sua nemesi. Fulcro di un viaggio, che è vita intera, è un’ossessione, il desiderio di vendetta del suo capitano, Achab. Chi era tuttavia l’uomo del viaggio fatale, quel lettore di Shakespeare e di Montaigne, il capitano? Un altro viaggio, sempre per mare, valse ad altro eroe, Enea, il suo connotato primo: la pietà. Egli si fece strumento dei fati sottomettendo loro ogni disegno proprio e volontà. Rinunciò alla propria terra, alla sposa, all’amore perfino, quindi a se stesso, per seguire un disegno più alto ed una misura (middot) elevata. Se Enea, e tanto quanto Enea, era pio, Achab appare empio. In questo senso mai egli rinuncia a se stesso, al proprio essere umano, per seguire quel che Altrui piacque (direbbe Dante). Allora e così rimane ancorato a se stesso e tanto più crudelmente odia chi di se stesso gli ha sottratto una parte, la gamba. Eppure nella sua conservazione, nel suo attaccamento alproprio sentire umano, anche lui, proprio lui,si fa e sente di essere irrimediabilmente, come tutti, espressione di una legge medesima, della Volontà stessa. E così più di ogni altro anche Achab è lo specchio della stessa middot della creatura cui dà la caccia. Tuttavia come non accetta il mostro non può, evidentemente, accettare se stesso, il proprio oscuro abisso. L’uomo è chiamato a qualcosa di più alto, così l’idealista rinnega la tenebra che ogni creatura cova in sé e che a tutte ed anche alle più luride lo accomuna. Preferisce allora un abisso empireo all’abisso, al cuore di tenebra (come in Conrad), che in realtà già cova in sé; e che per questo odia così tanto.Il mostro è il doppio della parte bestiale dell’Io e per un trascendentalista diviene il simbolo della Volontà stessa, del motore e della legge della bestialità in quanto tale. Eppure quella creatura, cui il capitano sarà fatalmente legato nell’estremo tentativo di arpionarla e che con sé lo trascinerà nell’abisso, è anche un dio, o meglio, un’immagine, la più antica, del Dio di Mosè e di Isacco, e degli altri padri che la storia prima insegna.
Dedicato a colui che nei boschi andò per vivere con saggezza.
Valerio Ceccarelli