“ILVA uccide, LAF anche”

Il 30 novembre 2023 è uscito al cinema “Palazzina Laf”. È raro vedere proiettati nelle sale cinematografiche film che parlano della Puglia e ancora meno che affrontano i problemi sociali di questa Regione. Palazzina Laf, acronimo di laminatoio a freddo, era il nome di un reparto del complesso industriale Ilva, a Taranto. Nel 1997 dodici dipendenti, che diventeranno 79, per la maggior parte impiegati specializzati, vengono confinati in un capannone spoglio e diroccato. Si tratta di una decisione presa dal Gruppo Riva, che nel 1995 aveva acquistato lo stabilimento dallo Stato e aveva imposto ai lavoratori più “scomodi” di abbandonare ogni tipo di attività sindacale o accettare il declassamento del loro livello. 

Con l’arrivo di Riva la parola d’ordine era “lavoro”: in questo modo anche un impiegato doveva diventare operaio. Non a caso, all’interno della Palazzina Laf, furono ‘rinchiusi’ alcuni impiegati, ingegneri e informatici che avevano studiato e non accettavano di essere ridotti a una funzione lavorativa che non li rispecchiava e rappresentava, afferma il regista tarantino Michele Riondino. Questo episodio è uno dei casi più noti di mobbing aziendale in Italia e la palazzina Laf è stata definita “il primo lager d’Italia per i lavoratori ingovernabili”.

Nel suo debutto alla regia, Riondino racconta la storia della palazzina Laf partendo dal punto di vista di Caterino Lamanna, interpretato dal regista stesso. Caterino fa l’operaio e viene adocchiato dai vertici aziendali, che decidono di utilizzarlo come spia per individuare i lavoratori di cui liberarsi. Il suo primo contatto con la palazzina Laf lascia al protagonista l’impressione sbagliata: per le scale incontra Tiziana Lagioia (Vanessa Scalera) mentre prende il sole sulla sdraio; più avanti, alcuni impiegati recitano il rosario in un ufficio, altri fanno sollevamento pesi con attrezzi improvvisati. Nel corridoio si gioca a mosca cieca. “Voi lo trattate troppo bene” dice Caterino al direttore Basile, parlando di Aldo Romanazzi, un informatico e sindacalista trasferito da poco nella palazzina. “Io ti mando alla Laf” risponde il superiore “Però devi dirmi tutto quello che succede”.

Già durante il primo giorno sul nuovo ‘posto di lavoro’ Caterino assiste agli sfoghi di frustrazione degli altri impiegati: “Ma quanto tempo dobbiamo ancora stare qui? Non ci sono nemmeno le sedie per tutti”, “Sono sette mesi che sono qui dentro, non ce la faccio più. Se mi chiedono di andare a pulire i bagni, io vado”. “Salirà la nausea anche a te” lo avvertono, ma per Caterino è difficile crederci: con la ‘promozione’ alla Laf lui è sfuggito alla cokeria, dove si occupava della manutenzione e del rifacimento dei forni. A confronto, gli impiegati della Laf sembrano dei nullafacenti. 

Tuttavia gli effetti della palazzina sui lavoratori diventano sempre più visibili: in base alle testimonianze di uno dei dipendenti “c’era chi guardava il muro e pregava, chi guardava il muro e piangeva, chi tirava i calci al muro”; anche l’oppressione attuata dalla proprietà si aggrava. Nel tentativo di denunciare la propria vicenda e andare via dalla palazzina, gli impiegati della Laf decidono di scrivere una lettera da consegnare al vescovo, che sarebbe andato a celebrare la messa per i dipendenti del capannone: “contro la nostra volontà siamo costretti a passare le nostre giornate lavorative in una palazzina in disuso, costretti a non fare nulla tutto il tempo. Per farci uscire di qui, ad alcuni di noi, provocatoriamente, sono stati affidati degli incarichi che non c’entrano nulla con le nostre competenze, e in questo modo veniamo umiliati una seconda volta. Tutto ciò ci induce a credere che le proposte, lungi dall’essere finalizzate a ricollocare effettivamente qualcuno, servano solo a fornire l’alibi alla proprietà di aver offerto una possibile ricollocazione a persone che devono apparire poco o per niente disponibili”. 

La lettera non arriva al vescovo, ma viene consegnata alla Procura della Repubblica e “la macchina si mette in moto”.

“Il non lavoro, dottoressa, è in grado di produrre un livello di stress molto preoccupante” esordisce nel film un’impiegata della palazzina Laf interrogata dalla procuratrice. In effetti, l’Osservatorio Nazionale Mobbing definisce il fenomeno come “un atto consapevole di violenza nel mondo del lavoro che spinge il soggetto mobbizzato alla disperazione e talvolta al suicidio” e dice che “il Mobbing è una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi aggressivi e ripetuti da parte dei datori di lavoro (Bossing), da parte di superiori, ma anche da parte di colleghi”. “L’obiettivo è quello di eliminare una persona che è o è divenuta, in qualche modo, scomoda, distruggendola psicologicamente e socialmente al fine di provocare il licenziamento o di indurla alle dimissioni”. 

In merito al caso della palazzina Laf, sull’edizione dell’8 Marzo 2006 della Gazzetta del Mezzogiorno, si legge che “secondo la ricostruzione dell’accusa, la dirigenza dell’Ilva collocò nella ex palazzina Laf, senza alcuna mansione, i lavoratori maggiormente sindacalizzati; una situazione che provocò ad alcuni di loro anche conseguenze sul piano psichico. Scattata l’inchiesta della Procura dopo la denuncia degli stessi lavoratori, dodici persone finirono sotto processo per tentata violenza privata e frode processuale”. Tra gli imputati era compreso il presidente del consiglio di amministrazione dell’Ilva, Emilio Riva, che è stato poi condannato a un anno e due mesi di reclusione. Inoltre, nel processo “Ambiente Svenduto”, cominciato nel 2016, sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento, i figli Fabio e Nicola sono stati condannati a 22 e 20 anni di reclusione dalla Corte d’Assise di Taranto per “concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro”. 

Nella sentenza di primo grado (confermata in appello e in cassazione) riguardante il caso della palazzina Laf, il giudice ha scritto: “è sembrato che all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto, nel periodo oggetto di contestazione, si sia voluto riscrivere la storia e la Costituzione”e “mettere in discussione alcuni capisaldi del nostro ordinamento in materia di diritto del lavoro, riscrivere i rapporti fra datori e prestatori di lavoro, rispetto alla loro evoluzione nel tempo”. Ancora, “vista la incredibile durata della condotta posta in essere dagli imputati, e in particolare dai vertici aziendali, protrattasi per circa un anno, a qualcuno deve essere sembrato possibile rimettere indietro le lancette dell’orologio della storia, ritenere Carta costituzionale e leggi dello Stato ingombranti orpelli, organi istituzionali, coinvolti nella vicenda, fastidiosi inghippi da aggirare ed eludere, per l’attuazione di un portentoso e ambizioso progetto”. 

Nella sentenza vengono ripresi concetti fondamentali e principi codificati nel nostro ordinamento, già a livello nazionale: “La nostra Costituzione sancisce il diritto al lavoro ed esalta l’interesse alla occupazione che l’ordinamento deve avere; e se tale diritto al lavoro non può essere visto come diritto soggettivo, inteso come pretesa ad un determinato e specifico posto di lavoro, certamente deve essere visto come tutela dell’interesse collettivo alla difesa dei livelli di occupazione e al controllo della distribuzione delle occasioni di impiego. È noto poi, che tale tema venga a confluire in quell’altro, relativo al diritto del datore di lavoro di prendere le decisioni ritenute economicamente utili per l’impresa, peraltro da attuare nel rispetto, fra le altre cose, della libertà e delle persone”.

La storia della palazzina Laf è molto poco conosciuta. A prima vista è difficile pensare che il titolo del film, incomprensibile se non si conosce la storia, racchiuda un significato così amaro. “Ilva is a killer” è la scritta che appare su un un plexiglas alla fermata dove Caterino prende l’autobus. Ma questa acciaieria ha ucciso in più di un modo, hanno avuto modo di conoscere per la prima volta molti spettatori dopo tanti anni. Per questo la vicenda della Laf ricorda il concetto del “silenzio dell’archivio”: è quella condizione in cui determinati eventi non vengono riportati e ricordati dalla memoria collettiva. È la volontà di non ricordare un fatto o per negligenza o per ignoranza. Sembra che il vissuto dei settantanove impiegati mobbizzati dal Gruppo Riva sia stato passato sotto silenzio, così come tanti altri episodi di abuso sul posto di lavoro, soprattutto nel Meridione d’Italia. È una grave mancanza: si tratta di avere gli strumenti per comprendere quello che succede, di avere a disposizione un contesto in cui collocare una situazione, per poterla capire e valutare. L’assenza di riferimenti crea un vuoto inquietante. 

Raccontando questa storia, Michele Riondino ha scelto di cominciare a riempire il vuoto; Palazzina Laf rappresenta l’interruzione del silenzio dell’archivio.

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