a cura di Veronica Sarno e Andrea Antonuzzo-
Le elezioni politiche nel Regno Unito, tra vecchi e nuovi problemi
Il 7 maggio sarà stato un giorno nero per i portafogli dei bookmakers. Smentendo sondaggi, previsioni e autorevoli analisi politiche, le elezioni nel Regno Unito non solo non si sono risolte nel pareggio da più parti pronosticato, ma hanno decretato una vittoria netta del premier uscente David Cameron, il cui Conservative Party ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi della Camera dei Comuni (321).
Dopo cinque anni all’insegna dell’insolito (almeno per la storia britannica) governo di coalizione tra i Tories e i Lib-Dem di Clegg, reso necessario dall’hung Parliament scaturito dalle elezioni del 2010, l’Uk torna al più familiare one-party government. Ma la situazione non è semplice come sembra: oltre a vincitori e vinti, queste elezioni hanno lasciato molti nodi irrisolti. Vediamoli.
TORIES. Favorito dalla sua posizione di incumbent, Cameron è stato abile nel dettare tempi e temi della campagna elettorale, costringendo gli avversari a rincorrerlo. Una campagna scandita da issues di politica interna, in particolar modo dai risultati ottenuti dal suo governo in ambito economico: dalla diminuzione del tasso di disoccupazione (tra i più bassi in Europa) all’aumento della ricchezza complessiva. Tutto questo avendo cura di lasciare in secondo piano temi più fastidiosi, come l’aumento degli squilibri e delle disuguaglianze sociali.
A 40 giorni dalle elezioni c’è stata poi la classica mossa elettorale: l’annuncio dell’abolizione della tassa di successione per i patrimoni di valore inferiore a 1 milione di sterline per garantirsi il sostegno della classe media. Cameron ha inoltre promesso l’indizione di un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE entro il 2017, disinnescando, di fatto, l’arma più potente dello Ukip. Da ultimo, Cameron è riuscito a disarmare anche il Labour, agitando lo spauracchio di una loro alleanza post-elettorale con lo Scottish National Party, prospettiva non molto gradita ad un Paese appena uscito dalle tensioni secessioniste del referendum dello scorso anno.
LIB-DEM. Gli uomini di Clegg sono scomparsi dai radar di Westminster: 7,8% dei voti a livello nazionale, solo 8 seggi, ben 49 in meno rispetto a cinque anni fa. Un risultato dovuto in parte alla scarsa incisività dei Lib-Dem sulle politiche di governo e alla transumanza di numerosi parlamentari nelle file dei Tories durante la legislatura. Ma soprattutto ad una scelta consapevole dell’elettorato britannico, storicamente sensibile al valore della governabilità, che ha ritenuto inefficiente l’esperienza del governo di coalizione.
LABOUR. Il partito guidato da Ed Miliband ha visto ridursi il suo drappello nella House of Commons, nonostante un incremento dell’1,4% dei consensi a livello nazionale. Un risultato frutto del sistema maggioritario britannico. I membri della House of Commons, infatti, sono eletti in altrettante constituencies secondo il metodo del first past the post: risulta eletto il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei consensi. A contare non sono quindi i consensi conquistati a livello nazionale, bensì la concentrazione territoriale del voto (vedi il confronto tra il 2010 e il 2015 http://www.repubblica.it/static/speciale/2015/elezioni/regno_unito_gran_bretagna/confronto.html)
Volendo riassumere le cause della sconfitta dei laburisti, sembra che siano ricaduti in una sindrome Thatcher 2.0: il Labour è tornato su posizioni di sinistra tradizionale, dimenticando la lezione della “terza via” blairiana. È stato lo stesso Blair, all’indomani della sconfitta, a sottolineare che un ritorno a posizioni care a una sinistra più tradizionale non paga in tempi di ideologia liquida. L’unica opzione politica praticabile è convergere verso l’area del centro politico. (Per il commento di Blair: http://www.theguardian.com/commentisfree/2015/may/09/tony-blair-what-labour-must-do-next-election-ed-miliband).
UKIP. Dopo il successo delle europee dello scorso anno, il partito di Farage era dato come possibile ago della bilancia in caso di hung Parliament. Il movimento euroscettico è invece uscito ridimensionato: nonostante il 12% conquistato a livello nazionale, lo Ukip non è riuscito ad andare oltre la riconferma dell’unico seggio che già vantava a Westminster. Resta da vedere se il partito, che si identificava completamente col suo leader, sopravvivrà alle dimissioni di Farage.
SNP. La grande sorpresa di questa tornata elettorale è stata senz’altro Nicola Sturgeon, leader dello Scottish National Party. Dopo la sconfitta degli indipendentisti scozzesi nel referendum dello scorso settembre, la Sturgeon ha rilevato da Alex Salmond la guida del partito. In soli sei mesi è riuscita a rinnovarlo, abbandonando le rivendicazioni nazionaliste più esasperate a favore di un ritorno ai temi della devolution. Nei mesi pre-elettorali lo SNP ha registrato un boom di 60mila adesioni, ottenendo alle elezioni ben 56 dei 59 seggi scozzesi, in gran parte conquistati a spese del Labour, storicamente molto forte in Scozia.
E LA HOUSE OF LORDS?La camera alta di Westminster non accorda la fiducia al governo, ciononostante conserva tutt’oggi rilevanti poteri, soprattutto nel procedimento legislativo e nella funzione di controllo dell’operato del governo. Sebbene i suoi membri siano in gran parte nominati dal primo ministro, la loro suddivisione in gruppi parlamentari li inserisce a pieno titolo nel quotidiano dibattito politico. Nella scorsa legislatura i Lib-Dem avevano preteso, nell’ambito degli accordi di governo, la nomina di un numero consistente di Lords a loro affini. Oggi il partito ne conta ben 101, i quali potrebbero passare all’opposizione come i loro colleghi della Camera dei Comuni. Un’eventualità che metterebbe a rischio l’attuazione del programma di governo e spingerebbe Cameron a ricorrere agli statutory instruments governativi piuttosto che alle leggi del Parlamento. Inoltre, i nuovi rapporti di forza nella camera alta potrebbero assestare un duro colpo alle ambizioni, mai celate da Cameron, di riformare la House of Lords su un modello simile alle camere
federali rappresentative dei territori. (Vedi http://www.mattridley.co.uk/blog/cameron-faces-guerrilla-warfare-in-the-house-of-lords.aspx per un approfondimento)
UE. Il referendum sull’eventuale uscita della Gran Bretagna potrebbe tenersi già il prossimo anno, onde evitare sovrapposizioni con le elezioni politiche francesi e tedesche del 2017. Ma più che alla Brexit, Cameron punta a guadagnare una posizione di forza da cui rinegoziare i termini dell’adesione dell’UK all’UE. L’obiettivo è quello di limitare la libera circolazione delle persone e i benefici sociali per i lavoratori migranti europei, per non parlare del niet ad accogliere una quota dei migranti che sbarcano continuamente sulle nostre coste. Del resto, la diffidenza di Londra verso il processo di integrazione europea è storia nota: sin dai tempi della Thatcher, infatti, la Gran Bretagna ha cercato sempre di sfruttare al massimo i vantaggi della sua membership, riducendone al contempo gli svantaggi.
SCOZIA. La proposta di Cameron di riformare la House of Lords potrebbe venire incontro alle richieste di maggiore devolution avanzate dalla Sturgeon. Ma è il referendum europeo a destare maggiori preoccupazioni ad Edimburgo. L’economia scozzese, infatti, dipende quasi interamente dagli scambi con l’Ue. Se la consultazione del 2017 dovesse avere esito favorevole alla Brexit, le tentazioni indipendentiste potrebbero tornare in auge, consentendo così alla Scozia di presentare richiesta di ammissione all’Unione senza più il timore di un veto posto da Londra.
Nonostante l’innegabile successo dei Conservatori, quindi, le sfide che attendono il nuovo governo Cameron sarebbero di per sé sufficienti a smorzare i facili e rituali entusiasmi post-elettorali dei vincitori. Per dirla con il famoso marinaio di Samuel Taylor Coleridge, “A sadder and wiser man, He rose the morrow morn”. Se Cameron saprà rivelarsi un marinaio saggio per la sua nave e il suo equipaggio, lo si vedrà presto.