A cura di Alessandra Cascone –
È innegabile l’importanza del materialismo egoistico nell’agire economico, ma sarebbe altrettanto inopportuno prescindere dalla necessità che questo vada delimitato dalle complesse istituzioni della vita moderna. Non è comunque un concetto pacifico. L’American Business Model costituisce il parametro di riferimento di tutte le posizioni politiche, per cui è un modello dal quale è difficile prescindere. Poiché per alcuni l’intervento statale nelle questioni economiche equivale ad un attacco alla libertà, capisaldi ideologici dell’ABM sono le regole dell’egoismo, che consacra il materialismo a motore della vita economica, il fondamentalismo di mercato, in virtù del quale questo dovrebbe operare in libertà, lo Stato minimale, quale risultante della riduzione del campo d’azione dei pubblici poteri ed infine una bassa imposizione fiscale, corollario dei precedenti punti. Infatti tra i compiti dello Stato minimale non rientra certamente la redistribuzione della ricchezza e pertanto le imposte (basse) assolvono al solo compito di finanziarne le funzioni. Un siffatto modello, reazione alla crescita esponenziale della spesa pubblica dello Stato sociale, prese piede negli anni 80’ dapprima nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher e successivamente in altri paesi europei. Furono avviate politiche di liberalizzazione e di privatizzazione tramite il superamento delle riserve d’attività a favore dei pubblici poteri e la cessazione sul mercato dei pacchetti azionari detenuti dallo Stato. Fondamento ideologico dell’ ABM è che la responsabilità sociale delle imprese è di massimizzare i profitti, posizione d’altronde non molto diversa da quella assunta da Goethe all’inizio della rivoluzione industriale: “dobbiamo tenere accuratamente separato dalla vita tutto ciò che è puramente commercio”. La crisi finanziaria del 2008 ha minato tale modello e le concezioni ideologiche sottostanti. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale, per anni paladino di istanze di deregolamentazione, ha compiuto una svolta rispetto a quanto professato per anni. Infatti il World Economic Outlook afferma che liberalizzare il mercato del lavoro non aumenta la crescita economica. La questione è ancora controversa, tuttavia uno dei tradizionali cavalli di battaglia di area liberista ne esce malmesso. Già nel 1861 Jonathan Coe denuncia che l’assenza di vincoli all’azione individuale in un contesto di piena concorrenza può consentire il prodursi di una crescita infinita cui è sinallagmatico il delirio di potere, sopraffazione e avidità, che ha portato l’Inghilterra di Margaret Thatcher allo sfascio. Durante l’ ultimo anno Podemos, Syriza e da ultimo Jeremy Corbyn non hanno avuto paura a pronunciare: “abbiamo bisogno di una ridistribuzione dei redditi”; auspicando l’aumento degli interventi pubblici nelle banche, nelle infrastrutture, nell’ istruzione e nella salute e la rinazionalizzazione delle ferrovie e delle aziende energetiche. Al contrario il neopresidente della Bri, Jens Weidmann, non vuole sentir parlare di investimenti pubblici. II tema è quindi ancora controverso, ma è indubbio che i processi di liberalizzazione e privatizzazione non hanno prodotto sempre i risultati sperati. Esempio ne sono gli Stati Uniti che hanno ripubblicizzato la gestione dei servizi di sicurezza e controllo dei passeggeri negli aeromobili in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre del 2001 oppure i deficit in termini di efficienza ed efficacia dei trasporti ferroviari in Gran Bretagna. Sono crescenti i sentimenti di sfiducia nel neoliberalismo e le aspirazioni a un cambiamento economico fondato sulla qualità sociale e sulla sostenibilità ambientale, tasselli, questi ultimi, di un progetto che ponga al centro della discussione diritti e saperi.