La poetica leopardiana: depressione o speranza?

A cura di Giulia Midei –

“Tristezza” è la prima parola che ci viene in mente quando sentiamo nominare Giacomo Leopardi, chi osa negarlo? Tuttavia è bene chiedersi se questa sensazione rifletta il vero sentimento che il poeta intendeva imprimere nei suoi celebri versi, conosciuti ormai in tutto il mondo per l’intrinseca bellezza e profondità.
A primo impatto è più che comprensibile intuire che il primo ideatore, nella storia della letteratura, delle plurime tesi del pessimismo personale, storico e cosmico, non fosse una persona che sprizzava gioia da tutti i pori. Una lettura più attenta dei testi leopardiani, non solo di quelli poetici ma anche di quelli prosastici contenuti nello “Zibaldone”, consente di percepire la dimensione esistenziale di un uomo che soffrì in modo smisurato a causa di una vita a lui ostile, ingiusta e severa, “matrigna”, come lo stesso poeta afferma. Una vita che gli impedì di realizzare il più grande sogno desiderabile da ogni essere umano: la felicità. In realtà il malinconico poeta non fa altro che prendere atto di questa sua vita “che gli è male”, e che ha continuato fino alla fine, imperterrita e spregiudicata, ad abbatterlo, facendo di questo suo sfogo un vero e proprio inno alla vita stessa, che viene paragonata alla “Ginestra”, fiore gentile e delicato che cresce alle pendici del vulcano e che, sebbene sia destinato ad essere distrutto dalla lava di questo, piegherà “il suo capo innocente” con dignità, con la consapevo lezza di aver vissuto comunque al massimo
delle sue possibilità. Di quale depressione stiamo dunque parlando? L’atteggiamento leopardiano non è altro che un appello all’umanità, alla quale il poeta implora di non cedere mai di fronte a nulla e di continuare a lottare per un domani migliore, con la speranza che qualcosa di bello possa sempre capitare.
Laddove ciò non accada, Leopardi invita a perire sereni, consapevoli di aver pur sempre vissuto con lo sforzo di scoprire la gioia più estrema nella sofferenza più lacerante. Se ci si riflette bene, è proprio questa la vera vittoria: andare avanti senza arrendersi mai, perché, come diceva il grande Giorgio Faletti, “l’importante non è ciò che trovi alla fine della corsa, ma ciò che provi mentre corri”.

 

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