Quello di cui vive la Pace

A cura di Simonetta Trozzi con la collaborazione di Valerio Ceccarelli

Un giorno, il 15 novembre 2015, nelle grandi sale del Palau de Congressos de Catalunya di Barcellona, la parola pace è risuonata in mille modi diversi. Quel giorno tanti erano i colori delle mani che si tenevano strette durante la declamazione della Dichiarazione finale del Summit. Di quel giorno memorabile rimane un documento dal forte valore morale, di cui è fuorviante parlare in termini di valore giuridico, come sarebbe portato a fare uno studioso del diritto positivo. Le idee, infatti, come qualcuno disse e molti ricordano, vivono in forza della loro ragione e non in ragione della loro forza. C’è un significato che deve essere dato ai suoni, ai colori e alle emozioni vissute in quei tre giorni di lavori, che ancora non sono del tutto svaniti. Rimane quel che si è provato ascoltando la voce dei Nobel, mai come allora, guardandoli negli occhi, sentendo la forza ispiratrice di una testimonianza che sa di coraggio. Quel giorno si poteva sentire lo spirito della pace vivere al di là di ogni possibile atto giuridico formale.

“Dal 1999 il summit si svolge annualmente con lo scopo di mettere insieme esperienze, cambiamenti e desiderio di un futuro migliore”, afferma Enzo Cursio, Vicepresidente del Segretariato Permanente che organizza l’evento. Effettivamente è così: questo evento ha un valore aggiunto. Si tratta della centralità data ai Nobel, simboli fortemente capaci di ispirare in quanto persone che hanno realizzato una discontinuità con le loro azioni di pace.

“Sono una persona ordinaria con la convinzione che il mondo possa diventare un posto migliore in cui vivere”. Con questa affermazione Betty Williams (Nobel per la Pace 1979) ha esordito nella cornice dorata dell’Università di Barcellona. Sin dall’inaugurazione ogni particolare dell’evento era stato studiato dal Segretariato per valorizzare le proposte e le testimonianze dei Nobel sul tema conduttore: la crisi umanitaria che coinvolge 20 milioni tra migranti, rifugiati e richiedenti asilo in tutto il mondo. La pace, da sempre una delle più alte aspirazioni umane sembra essere diventata una chimera, soprattutto a livello internazionale. Non a caso è rimasta celebre un’affermazione di Martin Luther King che suona così: “coloro che lavorano per la pace devono impegnarsi molto di più rispetto a coloro che agiscono per la guerra”. In altre parole, ci troviamo di fronte ad un valore che non vive di forza propria, ma ha bisogno di persone che operino concretamente perché si realizzi.

Sorriso contagioso e semplicità disarmante tra le tante testimonianze degli invitati, una in particolare ha lasciato il segno, quella del tibetano Ven. Thupten Wangchen, promotore del messaggio spirituale del XIV Dalai Lama. “Credo che la pace nel mondo sia concretamente realizzabile, ma perché ciò sia possibile ognuno deve sentirne la responsabilità, riscoprendo il valore delle relazioni umane e mettendo da parte quello dei beni materiali. Non si tratta di un’utopia, esiste un’arma potentissima che può cambiare le cose: la meditazione”.

Durante la cerimonia di chiusura i Nobel sono stati chiamati a dare una propria definizione di pace e quello è stato uno dei momenti più salienti di tutto l’evento. “Pace significa libertà, giustizia e democrazia, assenza di dittatura e terrorismo, pace è il momento in cui ciascuno accoglie la responsabilità di contribuire alla costruzione di un mondo migliore, senza aspettare gli altri”. Era giunto il momento per ciascun partecipante, fosse esso discepolo o maestro, di immaginare un mondo contraddistinto dal portato delle esperienze di pace di ciascuno e di iniziare, finalmente, a lavorare per renderlo reale.

Homo homini lupus, pax augustea, càritas: in tanti hanno discusso sull’evoluzione storica del contenuto della pace, oggi non più pensabile in negativo come mera assenza di guerra. La Dichiarazione finale ha reso manifesto ciò che veramente contava: la pace, etimologicamente “legare, unire, saldare”, è sicuramente un patto, non giuridicamente ma moralmente vincolante, che coinvolge tutta la gamma dei valori ultimi fondanti la convivenza umana, primo tra tutti la solidarietà.

 

Possiamo dire allora che i Nobel insegnano questo: perché la crisi umanitaria dei rifugiati possa avere un esito positivo è necessario recuperare il senso morale, piuttosto che giuridico, di alcune scelte. Scelte che celano un dovere non tanto giuridico o politico ma, in ultima analisi, profondamente etico. Solo così, con il raggiungimento della consapevolezza della responsabilità individuale nella costruzione della pace, quella colomba bianca che ha fatto da sfondo alla XV edizione del Summit potrà veramente prendere il volo.

Fotografia in alto/ PERMSEC (nobelforpeace-summits.org): palco dell’aula magna del Palau de Congressos di Barcellona. Sullo sfondo una colomba bianca che prende il volo, simbolo dell’evento.

Fotografie in basso da sinistra: 1)PERMESEC/ la Nobel Tawakkul Karman in uno scatto accanto al logo del Summit. 2) e 3) S.T./ alcuni particolari organizzativi dell’aula magna del Palau de Congressos di Barcellona. 4)PERMSEC/ Università di Barcellona, membri del Segretariato Permanente e autorità istituzionali spagnole durante la cerimonia di apertura.

Loading

Facebook Comments Box