EurHOPE: where are our dreams going?

A cura di Piervincenzo Lapenna –
PROLOGUE,
Il 24 Giugno -dalle pagine di questa rivista- ho già parlato di brexit, sostenendo con vigore la necessità di provare a salvaguardare (anche) gli interessi del Regno Unito quando, nei prossimi due anni, l’Unione dovrà negoziare con l’Inghilterra le specificità della decisione di quest’ultima di recedere dalle clausole dei trattati che ne fanno uno degli Stati membri dell’UE.
Nei pochi giorni trascorsi da quella pubblicazione ho avvertito la necessità di precisare meglio quanto già scritto. Sono convinto, infatti, che le emozioni, forti, che stiamo vivendo in questo momento così travagliato per il nostro continente ci debbano spingere ad un’attenta riflessione sulla direzione che noi cittadini europei vogliamo dare ai nostri sogni ed alle nostre speranze di vita comune.
Quello che NON DESIDERO è un’Unione Europea fondata sulla paura. La paura, appunto, di recedere da essa per via delle nefaste conseguenze economiche che ne deriverebbero. Una siffatta Unione -per i cittadini degli Stati che ne fanno parte- null’altro sarebbe che un ricatto.
DESIDERO, invece, un’Unione Europea fondata sulla speranza e su sentimenti positivi. Un’Unione in cui il libero mercato, la democrazia e la solidarietà (in ordine non casuale) siano i tre pilastri sui quali ergere il vivere comune.
CREDO che, seppure sia forse possibile immaginare un’Unione Europea senza la Gran Bretagna al suo interno, sicuramente non è possibile immaginare un’Europa senza Inghilterra.
CHAPTER ONE: David Cameron.
La colpa non è mai della democrazia. Sono convinto che in questa frase sia racchiuso lo spirito stesso del popolo inglese. Proprio per questo motivo non credo che la colpa della brexit sia da imputare a chi il referendum lo ha indetto, ma piuttosto sia da attribuire a chi il referendum lo ha perso(in primo luogo noi, noi under 25 che ci vantiamo di appartenere alla generazione erasmus).
Sia chiara una cosa: io credo nella rappresentanza. La democrazia se non è indiretta -e dunque se non è parlamentare- non ha alcun senso di esistere. Una buona democrazia parlamentare, però, per funzionare necessità di alcune valvole di sfogo.
In questi giorni molti hanno parlato -con riferimento al voto britannico di giovedì scorso- di “oclocrazia”, ovvero del cosiddetto governo delle masse(da contrapporre invece alla “democrazia” come governo della maggioranza). Come diversamente non avrebbe potuto essere io non sono d’accordo. In una democrazia compiuta e moderna il Popolo deve avere il diritto:
-(in primis) di eleggere i rappresentanti che per suo conto sono da esso stesso delegati alla funzione legislativa ordinaria;
-(in secundis) di scegliere direttamente le regole del gioco, ovvero tutte quelle leggi di rango sovra ordinario o, se preferite, costituzionale che disciplinano e definiscono i principi fondamentali di un’organizzazione.
La scelta fra l’appartenere o il non appartenere all’Unione Europea rientra sicuramente in questa seconda categoria. Se così non fosse, per tornare al discorso sull’ “anaciclosi” di Platone(il filosofo che per primo teorizzò il rapporto ciclico che intercorre fra le forme di governo), non ci troveremmo in presenza né di una vera democrazia, né tantomeno di un’oclocrazia, bensì di un’oligarchia -e cioè del sistema di governo che un gruppo di pochi impone ad un gruppo di molti-.
A nulla vale, sotto questo punto di vista, opporre il fatto che non sarebbe possibile riassumere 80.000 pagine di trattati nella scelta dilemmatica fra un “leave” ed un “remain”.
Partecipare o meno alla vita dell’Unione Europea è una scelta immanente poiché ne sono immediatamente percepibili gli effetti. È evidente la differenza che c’è nell’attraversare un confine senza subire alcuna restrizione o ispezione. È evidente la differenza che c’è fra l’avere ed il non avere assistenza sanitaria garantita in ogni paese membro. La verità, purtroppo, è che i benefici(ed anche gli svantaggi) che derivano dal fare parte dell’Unione Europea sono per l’appunto evidenti ed, in quanto tali, direttamente percepibili dal cittadino. In una parola: referendabili (almeno tanto quanto lo era, per capirci, la scelta del ’48 fra Monarchia e Repubblica).
Credo che la maggioranza delle analisi che ho letto in questi giorni, oltre che dalla frustrazione per la sconfitta del remain -frustrazione anche da me condivisa- rappresentino per lo più un vano tentativo di arrampicarsi sugli specchi e di non attribuire la responsabilità della brexit ai suoi veri responsabili: ovvero a noi stessi.
Se confermate, le rilevazioni sull’affluenza relativa alla popolazione degli under 25 Inglesi (secondo Sky solo il 36% di loro si sarebbe recato alle urne) sono un dato sconfortante. Vorrebbe dire che per noi giovani l’Unione Europea vale meno del prezzo del biglietto del treno che avremmo dovuto pagare se fossimo tornati a casa a votare. Vale meno tempo di quello che avremmo perduto a delegare un nostro amico a votare al nostro posto(si, in UK esiste la possibilità di delegare il voto). La più grave responsabilità della brexit è dei nostri coetanei e dunque è la nostra. È anche la mia e la tua, visto che il 22 avremmo potuto tranquillamente contattare alcuni degli amici inglesi che abbiamo conosciuto nel corso dei nostri viaggi all’estero per convincerli ad andare a votare remain, ma non lo abbiamo fatto.
Siamo o non siamo la generazione erasmus? Siamo o non siamo, noi per primi, Cittadini Europei? Ebbene è arrivato il momento di capire che dalla cittadinanza non derivano solo diritti ma anche doveri.
Le ricerche su Google del giorno dopo la brexit, purtroppo, non cambieranno l’esito del voto.
Personalmente sono poi convinto del fatto che la storia inglese si componga di tante piccole brexit. Nel mio precedente articolo ho citato, come esempio, lo Scisma Anglicano, ma potrei elencarvene tante altre. La differenza, però, questa volta, dobbiamo farla noi. Non dobbiamo più commettere lo storico errore di giudicare gli inglesi utilizzando i nostri parametri “continentali”. Un tale approccio può soltanto contribuire ad aumentare la distanza che separa l’Isola dalla terra ferma.
Nei prossimi mesi, infatti, ci aspetteranno al varco due grandi sfide:
-la prima sarà impedire a Londra di uscire, oltre che dall’Unione, anche che dall’Europa. Questo lo si fa innanzitutto negoziando clausole eque ed, a questo proposito, ho trovato assolutamente inadeguate le parole del Presidente della Commissione Europea che ha dichiarato:”quello fra l’Ue ed il Regno Unito non sarà un divorzio consensuale”. Nulla di più sbagliato, quello fra UE ed Inghilterra deve essere un divorzio consensuale, perché qui non c’è un marito o una moglie infedele da punire. La brexit è la scelta libera di un popolo libero.
-la seconda sfida sarà, invece, quella non solo più complessa ma cruciale per il nostro futuro: disinnescare la EUxplosion (European-Explosion, ovvero l’implosione dell’Unione Europea).
CHAPTER TWO: EurHOPE.
Che fine hanno fatto i sogni dei nostri padri? Cerco di giungere finalmente ad una conclusione proponendovi alcune soluzioni, poiché non mi è mai piaciuto chi si limita a criticare.
Credo che, per evitare l’implosione dell’Unione, la prima cosa da fare sia consolidare l’asse mediterraneo. Qualcuno dovrà pur pagare il prezzo dell’avvenuto mutamento del quadro euro-politico ed il principale indiziato è Juncker. Chiederne le dimissioni quanto prima per affermare, anche a livello sovranazionale, un principio sacrosanto e basilare: quello della responsabilità. Cambiare guida della commissione, ora come ora, vorrebbe dire dare una vera speranza di cambiamento alle persone. Il profilo ideale per sostituire Juncker sarebbe quello di Tony Blair. Blair è un leader carismatico, un politico capace ma la Gran Bretagna ormai è fuori dai giochi dell’Unione e dunque occorrerà individuare qualcun altro(dipendesse da me sceglierei Zapatero, guardando invece all’orticello di casa nostra potrebbe essere arrivato nuovamente il momento giusto per Enrico Letta). Archiviato questo siparietto di fanta-europolitica e tornando ad un’analisi sensata ritengo che la priorità della politica dell’Unione dei prossimi mesi debba essere quella di disegnare una nuova legge elettorale per il Parlamento Europeo (a tal proposito vi consiglio di leggere l’ultimo libro di Lorenzo Castellani dal quale questa parte dell’articolo è ispirata).
L’unica strada per aumentare la fiducia dei cittadini europei nelle istituzioni è implementare il percorso di rappresentanza: creiamo una metodologia di elezione comune a tutti gli Stati Membri, con delle liste continentali e non nazionali ( per capirci: all’Europee il cittadino non deve votare PD o Forza Italia, ma “Socialist & Democrats” o “Partito Popolare Europeo”) e con l’attribuzione alla lista vincente di un adeguato premio di maggioranza, in modo tale che quella indicazione del presidente della commissione si traduca poi in una scelta rilevante per il cittadino. Per cambiare l’Unione serve innanzitutto il coraggio di iniziare ed una legge elettorale è l’unico obiettivo raggiungibile in breve tempo.
Nel lungo periodo, invece, si deve pensare a riformare completamente la struttura dell’Unione, conferendogli allo stesso tempo in alcune, pochissime, materie più potere e nelle altre meno. Attualmente il rapporto che sussiste fra Stati Membri e Unione ricorda un po’ quello che lega le nostre regioni allo stato. Si tratta di un modello che gli studiosi del diritto regionale Spagnolo hanno ribattezzato del “Cafè para todos” (o del caffè per tutti). In estrema sintesi gli Stati Membri, proprio come le regioni a statuto ordinario, hanno identici obblighi ed identici spazi di autonomia rispettivamente nei confronti dell’UE e dello Stato Italiano. Sostanzialmente con questo modello l’autorità centrale obbliga quella locale ad accettare o rifiutare, senza possibilità di negoziazione, un dato pacchetto di diritti e di obblighi (o il caffè o niente, per capirci).
Quello che succede con le regioni spagnole, invece, è molto diverso. In Spagna, infatti, ogni regione negozia il suo spazio di autonomia direttamente con l’autorità centrale. Il risultato sono tanti statuti regionali differenti l’uno dall’altro. Questo modello viene comunemente definito modello della “tabla de quesos” (tagliere di formaggi) poiché consente ad ognuno dei commensali di scegliersi il pasto, ovvero le regole che intende rispettare nei rapporti con l’autorità centrale.
Questo a mio parere è il modello cui dovrebbe tendere, nel lungo periodo, l’Unione Europea. In poche, pochissime materie, dovrebbe avere sovranità esclusiva (politica estera? Moneta? Sicurezza?) in tutte le altre, invece, la sovranità dovrebbe rimanere ben salda in capo agli Stati membri, con possibilità per gli stessi di delegarne all’Unione una parte più o meno grande in maniera libera, reversibile, liquida. Ogni stato dovrebbe poter scegliere la regolamentazione cui vuole aderire, un po’ come si fa quando si realizza un abito sartoriale, che è cucito addosso a chi è destinato ad indossarlo. Mai più un’unica soluzione per ventisette Paesi diversi(o almeno per 19 di loro) ma ventisette soluzioni diverse per altrettanti Stati Membri.

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