Processo e mediazione: una riflessione comparata

A cura di Mariana Ragozzino con la collaborazione della Professoressa Roberta Tiscini-

L’elaborato si incentra sull’analisi delle dinamiche intercorrenti fra la nuova mediazione civile e commerciale, così come rimodellata dal d.l. 69/2013, convertito in l. 98/2013, e il processo, avendo riguardo all’individuazione delle criticità che caratterizzano l’attuale d.lgs. 28/2010 e alla comparazione con la mediation inglese in generale e con l’impianto delle Court Annexed ADR in particolare. Nello specifico, a seguito di una panoramica di sistema, volta a valutare la riproposizione più marcata di una concezione di giustizia alternativa all’interno dell’ordinamento italiano, di chiara matrice statualistica, si è proceduto all’analisi puntuale degli articoli del decreto ritenuti maggiormente rilevanti e caratterizzanti l’istituto della mediazione così come recepito dal legislatore. Di qui, la prima disposizione legislativa esaminata al vaglio della comparazione giuridica è l’art. 5 del d.lgs. 28/2010, innovata nella sua portata dalla riforma del 2013, laddove, oltre alla mediazione come condizione di procedibilità dell’azione ex lege, prevede la medesima qualifica anche per la mediazione delegata dal giudice (altresì detta mediazione “iussu iudicis”). Con riguardo al suddetto articolo, si è optato per un approccio fortemente ispirato al principio della ragionevole durata del processo nell’analizzare le criticità che presenta il tenore letterale della norma e il suo raffronto sistematico. In primo luogo, gli studi effettuati, attingendo ad un copioso panorama prevalentemente dottrinario, si sono soffermati su tre aspetti principali.

Il primo profilo si attaglia all’individuazione del momento in cui possa ritenersi realmente acquisita al processo la condizione di procedibilità allorché l’art. 5 faccia esclusivo riferimento all’ “esperimento” del tentativo obbligatorio di mediazione: in particolare, le riflessioni dottrinali e giurisprudenziali sul punto oscillano fra l’acquisizione della condizione di procedibilità imposta al processo con la semplice presentazione della domanda di mediazione presso l’organismo o fra il necessario raggiungimento di un esito, positivo o negativo che sia, problematicità estensibile anche alla mediazione delegata. Al di là di una presa di posizione nell’uno o nell’altro senso, si è rilevato come la controversia possa essere risolta alla luce del nuovo primo incontro di cui all’art.8, che impone alle parti lo svolgimento di un effettivo tentativo di mediazione in questa sede per ritenere soddisfatta la condizione di procedibilità.

 La seconda questione inerisce all’esatta estensione del perimetro del tentativo obbligatorio di mediazione, con particolare riguardo alle ipotesi di processo oggettivamente e soggettivamente complesso.

Infine, la riflessione si dischiude alle criticità del sistema di rinvio previsto dall’art. 5 nel caso in cui le parti non abbiano esperito il tentativo di conciliazione oppure nell’ipotesi in cui abbiano iniziato il procedimento di mediazione ma non siano pervenute ad un accordo. La mancanza di un raccordo differenziato per le due ipotesi di sanatoria della condizione di procedibilità sin qui descritte fra la fase stragiudiziale e processuale si avverte in maniera più marcata in sistema giudiziari non multidoor come quello tipico dell’esperienza angloamericana, che pur prevede, ad esempio che, in caso di stay, il giudice disponga e organizzi le attività successive alla procedura ADR, secondo i vari Protocols che interessano l’oggetto della controversia. A differenza dell’esperienza italiana, che lascia all’interprete la definizione dei meccanismi di raccordo fra il rinvio operato per il tentativo di mediazione e la ripresa del processo, in via generale, la Rule 26.4 delle Civil Procedure Rules stabilisce che il periodo di sospensione predisposto possa essere richiesto sia dal giudice che dalle parti e che quest’ultimo sia parametrato in ordine al lasso temporale ritenuto più appropriato al caso. Inoltre, all’attore è accollato il preciso obbligo di informare (must tell) la Corte se, nel periodo di sospensione previsto, il procedimento ADR perviene ad un settlement, essendo in caso contrario prerogativa del giudice agire secondo la modalità ritenuta più consona nell’ambito dei case management powers.

Successivamente, nel ripercorrere il possibile atteggiarsi dei rapporti fra processo e mediazione, partendo dai lavori preparatori al decreto, sì è proceduto alla ricostruzione dei contorni degli articoli 8, 11 e 13, ritenuti i riferimenti normativi più significativi. Con riguardo alla normativa italiana, l’art. 8 e l’art. 13 del. d.lgs. 28/2010 rappresentano le disposizioni che più di tutte spiccano per la loro finalità promozionale, rilevando ai fini della nostra trattazione per il legame di continuità che intrecciano fra il procedimento stragiudiziale e il successivo eventuale processo. Fermo restando la nuova configurazione del primo incontro di cui al comma 1, il successivo comma 4 bis prevede che la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione comporti la possibilità di desumere argomenti di prova  ai sensi dell’art 116 c.p.c. e la condanna della parte costituita al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio. In questo tratto si scorge facilmente un’analogia con la Rule 44.4(a) CPR che annovera fra le “all circumstances” di cui il giudice debba tenere conto ai fini della liquidazione dei costi processuali, la condotta tenuta dalle parti, prima e durante il processo, configurandosi come discriminante la sola sussistenza di un  motivo reasonable, che giustifichi ragionevolmente la scelta, del quale si dà contezza dinanzi al giudice. Le sedi nelle quali il giustificato motivo rileva sono almeno due: nella fase iniziale in occasione della presentazione dell’allocation questionnaire al giudice per l’allocation della controversia nel track, in cui la parte deve dare atto dell’osservanza dei Pre-action protocol eventualmente previsto e in cui il giudice o la parte può richiedere la prova dell’effettività della stessa; nel momento in cui le parti scelgano di sottrarsi all’automatic referral to mediation, ovvero all’automatica devoluzione della controversia al procedimento mediativo – tramite il meccanismo di  opting out – incardinando una parentesi giudiziale per le obiezioni mosse. A queste ipotesi particolari, sia affianca, poi, l‘hearing appositamente richiesto dal giudice prima della formulazione di un cost order sanzionatorio rispetto a eventuali misconduct (condotte non in buona fede), fra cui rientra anche l’unreasonable refuse to mediate. Riprese brevemente le peculiarità dei due articolati, si percepisce dalla mera giustapposizione degli stessi anche la diversità della struttura delle due fattispecie nella disciplina dei rapporti con il processo. In primo luogo la Rule 44. 4 attiene a una disciplina generale e, pertanto, spicca per una dimensione di più ampio respiro che possa tenere conto della condotta delle parti in generale e del refuse to mediate in particolare, mentre l’art. 8 d. lgs. 28/2010, essendo il frutto di un intervento settoriale, non può assurgere a pretese di generalità, essendo ancorato alla mancata partecipazione al procedimento e alla presenza del giustificato motivo. Inoltre, la forza deterrente e allo stesso tempo promozionale delle norme è decisamente più sbilanciata in favore della disciplina contenuta nelle Civil Procedure Rules, in quanto la condotta delle parti può condurre addirittura alla negazione delle spese processuali, risultato previsto non dall’art. 8, bensì dall’art 13, sulla base della corrispondenza fra la proposta del mediatore e la sentenza ottenuta in giudizio. Infine, la più grande divergenza, ad avviso dello scrivente, è la mancanza di raccordi processuali espliciti con cui il giustificato motivo può trovare collocazione nel processo; lacuna, questa, acuita dalla diversa impostazione dell’amministrazione delle procedure di mediazione a cui i due legislatori nazionali aderiscono: l’una affidata totalmente agli organismi di mediazione, l’altra ripartita fra la Corte e il singolo mediation provider accreditato. La tendenza a lasciare all’azione dell’interprete o dei singoli organismi di mediazione la definizione dei canali di raccordo fra mediazione e processo emerge, dunque, non solo nell’art. 5 del decreto circa la condizione di procedibilità dell’azione, ma anche in merito a questo ulteriore riflesso, prestando una simile politica il fianco alla proliferazione di ipotesi di incertezze normative, che a loro volta possono costituire l’occasione per la creazione di prassi fra gli organismi in controtendenza rispetto alla ratio legislativa.  L’unica disposizione invocabile per tentare di individuare un punto fermo è l’art. 11 comma 4 d.lgs. 28/2010 secondo cui il mediatore nel redigere il verbale negativo dà atto della mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione: essendo il verbale l’unico strumento attraverso il quale è possibile portare all’attenzione del giudice gli elementi conoscitivi necessari per l’applicazione dell’art. 8, sarà necessario che gli organismi siano guidati da un’interpretazione del combinato disposto dei due articoli che giustifichi il superamento dei doveri di riservatezza al fine di introdurre le ragioni di parte che abbiano portato alla mancata partecipazione, magari, sollecitando la parte dichiarante a prestare il suo consenso. Una soluzione questa, coerente con esigenze di linearità e celerità, che relega al procedimento di mediazione la collocazione temporale dell’emersione del giustificato motivo, il quale, nel successivo processo, interviene esclusivamente ai fini della sanzione pecuniaria e dell’ampliamento del quadro probatorio. Appare altrimenti difficile individuare, una volta iniziato il giudizio, una fase processuale in cui possa adeguatamente assumere rilievo. Di contro l’art. 13 del d.lgs 28/2010 e la Rule 44.4, ancorché accomunati dal medesimo intento di responsabilizzare l’approccio alla mediazione e sanzionare opportunamente eventuali condotte abusive, non potrebbero essere più diverse in quanto a presupposti e modalità di applicazione. L’art. 13 sembra subordinare il regime sanzionatorio diversificato esclusivamente al verificarsi di un presupposto che si esplica sul piano oggettivo, essendo ancorato alla corrispondenza totale o parziale fra l’eventuale proposta avanzata dal mediatore ex art 11 d.lgs. 28/2010 e la sentenza resa in giudizio: un criterio eccessivamente rigido per il raccordo fra la fase stragiudiziale e quella processuale. La Rule 44.4, invece, inserisce il criterio della proposta conciliativa non come presupposto dell’attivazione del regime sanzionatorio descritto, bensì come requisito di modulazione del tipo di provvedimento da adottare e del contenuto da attribuirgli. Volendo pervenire a rilievi conclusivi di politica del diritto, si può affermare come il legislatore italiano, tramite due interventi mirati con riferimento agli artt. 8 e 13, abbia scisso (e complicato) la fattispecie e l’effetto  contenuta nella Rule 44 CPR, prevedendo un regime sanzionatorio diversificato per la mancata partecipazione al procedimento e uno per la mancata accettazione della proposta che si riveli corrispondente alla sentenza, costruendo un regime che sostanzialmente scade nell’esplicazione dell’obbligatorietà dell’accordo e che può, più della scelta operata dal CPR inglese, essere ricondotta allo schema della coercion within mediation. Allo stesso tempo, sull’orizzonte degli incentivi indiretti a mediare, si evince, pertanto, che l’utilizzo di metodi ADR, ancorché non imposto tramite la previsione dell’obbligatorio esperimento, è compreso in un corpus di norme a cui l’ordinamento inglese attribuisce una vincolatività per le parti tale che le conseguenze processuali scaturenti dalla violazione sono quasi equiparabili ai risvolti previsti dal d.lgs. 28/2010 per la mancata acquisizione della condizione di procedibilità di cui all’art. 5, comma 1 bis e comma 2, se non addirittura più gravosi: seppur non formalmente obbligatoria, la mediation è sostanzialmente vincolante per le parti. La divergenza di piani su cui si esplicano la mediazione inglese e quella italiana non può semplicisticamente additarsi alla mancata previsione, per quanto concerne la prima, dell’obbligatorietà del tentativo conciliativo, ma deve essere valutata ricorrendo ad un approccio di più ampio respiro, che guardi ai rapporti regolamentati fra la stessa e il processo in cui si innesta e alla valorizzazione del ruolo del giudice, in particolare nelle controversie di medio-basso valore, proprio quelle che restano escluse dalla mediazione italiana.

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