A cura di Raffaella Pirinu-
Cara Taranto,
mi rivolgo a te come una figlia si rivolgerebbe alla propria mamma. Vorrei che tu possa guarire al più presto, perché soffro nel vederti malata, vederti ormai abbandonata a te stessa, senza nessuna speranza. Sulla tua pelle hai incise solo lacrime e ferite, e i tuoi occhi sono ormai spenti, perché ti fa rabbrividire solo il pensiero di ricordare le ingiustizie che hai subito. Sei stanca di sentirti biasimata, non hai mai accettato i pregiudizi oltraggiosi che hanno stravolto la tua bellezza, perché eri sola quando ti hanno vessata senza ritegno.
Piangi incessantemente, dall’alba al tramonto, con un respiro sibilante, vedendo le ciminiere dell’ILVA emanare diossina, perché i tuoi figli combattono tra la vita e la morte per poi salire in cielo. Ogni giorno è un giorno nefasto, segnato da tre tocchi di campana e non ci si chiede la causa della morte, ma dove aveva colpito il tumore; tanto da essere conosciuta come “una delle città europee con il più alto tasso di morti bianche”. Ai tuoi bambini del rione Tamburi non è permesso giocare a calcio, perché nei terreni sono depositati elementi altamente tossici, quali berillio, mercurio, nichel e cadmio. È difficile ammettere che sono avvezza a vederti così ammorbata, vederti come un corpo senza organi, vederti sopportare da anni questa agonia, combattere a mani nude contro un’industria non molto lontana da quella descritta nei romanzi di Dickens, ma questa è la kafkiana realtà.
Mia amata Taranto, oggi ho acceso la Tv, ti hanno nominata a più riprese, ma l’ho spenta subito. Non riesco a trattenere le lacrime ogni qual volta ti dipingono come un essere sciagurato con discorsi triti e ritriti; io sono scorata, perché ho visto la tua bellezza sotto i miei occhi. Ho nel mio cuore il ricordo di una città con un mare cristallino, le luci sfavillanti in via Cesare Battisti, la processione di San Cataldo, il lungomare assolato, piazza Maria Immacolata piena di colori, il ponte girevole illuminato, il Castello Aragonese gremito di turisti e le stenelle striate che lambiscono nel tuo mare.
Tu non sei solo l’ILVA, tu non sei la diossina che ho respirato per 18 anni della mia vita, tu sei come la Guernica, perché sei il simbolo della sofferenza umana costellata di bellezza che risplende nei tuoi due mari.
Sono emigrata dalla terra ionica, perché qui non vi è garantito un futuro e l’ILVA osteggia noi giovani portando via i nostri sogni di gloria. Il mio non è un eterno movimento e con te non taglierò mai il cordone ombelicale.
Taranto, un tempo culla e cuore pulsante della Magna Grecia, eccelsa colonia spartana, adesso corrosa fino al midollo. Dapprima hai visto i tuoi ulivi secolari cadere ad uno ad uno “come burattini di legno” e, in seguito, hai assistito alla costruzione di quel mostro d’acciaio: l’Italsider, l’impianto siderurgico più grande d’Europa, se non il più inquinante, dandoti il colpo di grazia in modo prorompente e provocandoti un dolore lancinante. Ovunque io andrò sarò sempre orgogliosa di essere nata nella città che, con il suo fascino, ha incantato Orazio e Alda Merini e ha dato i natali a grandi poeti classici quali Leonida, Quinto Ennio, Livio Andronico e Aristosseno. Il silenzio che il nostro Paese ti riserva è a dir poco sgradevole, dato che l’ILVA è una matassa da sbrogliare.
Vorrei averti tra le mie braccia e dirti che sei ancora la più bella.
IE JESCHE PACCE PE TE.
Raffaella.