UN DIO TAPPABUCHI AI TEMPI DELLA GUERRA

A cura di Martina Nunziata-

Quando il concetto di sopraffazione sostituisce quello di integrazione, quando il principio di prevaricazione prende il sopravvento sul senso di solidarietà e di civiltà, si produce un’inevitabile tensione verso il conflitto e l’ostilità. In un carteggio risalente al 1932 Einstein chiedeva a Freud, massimo conoscitore della mente umana, se ci fosse un modo per liberare l’uomo dalla fatalità della guerra, capace di tramutarlo in una vera e propria macchina bellica votata alla violenza e alla distruzione. Il quesito fu talmente illuminante ai fini della teoria freudiana da portare all’individuazione di una seconda pulsione fondamentale dell’inconscio. Accanto alla libido ciò che spinge l’uomo è l’aggressività. Quest’istinto verso la distruzione prevale sulla razionalità fino a sfociare in una conflittualità permanente. Sebbene l’uomo cerchi di frenarlo, contenendone la portata e disinnescandone gli effetti, il più delle volte questo riesce a prendere il sopravvento trasformandolo in una potente macchina bellica. E così, quale artefice degli atti più atroci, l’uomo è alla ricerca di una scriminante, un qualcosa o un qualcuno che possa in qualche modo giustificare le sue azioni. Ragion per cui, inizia a costruisce un prototipo di Dio su misura, dietro cui potersi nascondere accuratamente. È questo il caso, oggi più che mai attuale, della religione utilizzata quale movente della guerra, che viene caricata di un’aura di sacralità al fine di apparire giusta

Basti pensare a come Allah rappresenta oggi la più alta fonte di giustificazione per gli efferati atti dell’Isis, capace di ottundere la ragione ed alimentare una forza incontenibile. Ma può un Dio diventare portavoce di una radicalizzata emarginazione, può rimanere impassibile di fronte al grido straziante di dolore e ai volti spenti di migliaia di “infedeli” costretti ad esalare l’ultimo respiro? Semplicemente non può, e questo perché qui non si parla di un Dio, non si parla di Allah di per sé, ma ci si riferisce ad un’espressione alienata delle più alte aspirazioni umane. Ed è così che Dio diventa una proiezione mascherata dell’uomo. Non è Dio a creare l’uomo a sua immagine e somiglianza ma è l’uomo a creare Dio come riflesso dei propri desideri egoistici di potenza, gloria ed invincibilità. Il Dio in nome del quale si afferma di agire rappresenta, in realtà, ciò che l’uomo vorrebbe essere proiettato in un essere trascendente ed eterno. Così si esprimeva ad esempio Ludwig Feuerbach, sostenendo che “il segreto della teologia è l’antropologia”.

Qual è allora il ruolo che si attribuisce a Dio in questo caso? Non è forse quello di una semplice causa di giustificazione?

Non posso che avvalorare la tesi di Bonhoeffer quando nel suo libro “Resistenza e resa” si riferisce a Dio come ad un “tappabuchi” quale inequivocabile conclusione dedotta dalla sua prigionia nel campo di concentramento di Flossenburg.

Troppo spesso oggi la fede viene ridotta ad alibi, fuga dalle responsabilità e tranquillante per la coscienza. Troppo spesso oggi si invoca un Dio salvatore che interviene a tutelare le falle dell’uomo per poi essere messo da parte nello stesso istante in cui l’uomo impara a bastare a sé stesso. 

Non a caso le teorie più remote risalgono all’epoca del giusnaturalismo, il “bellum justum“ di Grozio tendeva a ricalcare la necessità di immaginare la guerra come un’extrema ratio. A distanza di anni la guerra ha mutato radicalmente i suoi connotati strutturali passando dallo stato di “ultima necessità” a quello di priorità inderogabile.

Ragion per cui oggi la risonanza delle azioni di guerra viene largamente amplificata, confondendo le vittime e i carnefici, coinvolgendo anche chi di fatto non partecipa attivamente nel conflitto ma, pur restando in poltrona, è in diretta con la tragedia degli avvenimenti e si immedesima nel ruolo di spettatore attento a scorgere quel labile confine tra finzione e realtà. Social network e teIevisori ci inondano di immagini raffiguranti dolore, rabbia che si fonde a paura, il gelo dell’ingiustizia che estrapola dal contesto sociale centinaia di uomini innocenti. Ed ecco come la violenza dell’immagine impone con forza la propria presenza mantenendo uno scarto perpetuo, facendoci condividere per un attimo l’impeto di quella brutalità straziante, ma avvolgendoci, allo stesso tempo, di una patina protettiva che ci allontana dalle vibrazioni quasi impercettibili dei mitra che vengono ricaricati e dalla polvere che si alza al ruotare delle eliche degli aerei militari. Così la guerra diventa un evento asettico, indolore, stilizzato accuratamente per lasciar trasparire in sé l’attrazione tipica di un videogioco violento ben simulato di cui percepiamo l’invisibilità, nonostante il clamore estemporaneo della cronaca. La retorica dell’indifferenza e del distacco si insinua nelle menti prendendo il sopravvento, rendendo impossibile leggere la morte negli occhi di un uomo, il sottile velo che li riveste e la vita che si paralizza in un istante. 

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