Arabi? Ebrei? No, figli di Sakhnin

A cura di Michele Enrico Montesano

 

Il calcio è uno sport, no. Il calcio è una passione, no. Il calcio è unione. No. Si. A volte. In realtà il calcio, per noi italiani, è una fede. Alla pari del credo religioso, tanto che si utilizza spesso l’espressione “credo calcistico” per schierarsi a sostegno di una squadra piuttosto che di un’altra.

Quanto scritto non può che non essere ancor più vero se ci si sposta nel campionato israeliano, esattamente nella Galilea, a 40 chilometri a nord di Nazaret, in una città circondata dalle montagne e posta su colline colme di ulivi, Sakhnin,una piccola città che conta poco meno di 30 mila abitanti. Eppure qui c’è tutto l’occorrente per fondare una squadra che possa gareggiare nel massimo campionato: un campo, qualche pallone e 11 giocatori con tanta voglia di correre.

Così nel 1991 dalla fusione del Maccabi Sakhnin e dell’Hapoel Sakhnin nasce l’Ihud Bnei Sakhnin, oppure, se preferite la dicitura araba, l’Itthiad Bnei Sakhnin; anche se ciò che più conta è il significato, ossia, Figli di Sakhnin Uniti. Ma in quella regione,in Galilea, è strano parlare di unione, è strano avere un’unica squadra in una città dove convivonoebrei, musulmani, cristiani e drusi. È ancor più strano se quella squadra arriva a vincere nel maggio del 2004 la coppa nazionale. A dire il vero, però, è l’intera società calcistica ad apparire inverosimile. L’allenatore Eyal Lahmanè ebreo, il presidente Mazen Ghanayem è arabo e i giocatori che compongono la rosa spaziano da un credo all’altro. Così capita che mentre alcuni sono in ginocchio a ringraziare Allah, altri si fanno il segno della Croce. Sugli spalti ebrei e arabi sostengono un’unica squadra, cantano le stesse canzoni, si abbracciano e festeggiano insieme dopo il 4-1 rifilato all’Hapoel Haifa in finale,dimenticandosi gli incidenti avvenuti proprio a Sakhnin il 30 marzo del 1976, dove, in una manifestazione contro l’espropriazione di terreni, 6 arabi israeliani persero la vita, e, ancora, nel 2000, dove 13 persone furono uccise a seguito di alcuni incidenti avvenuti durante la Seconda Intifada. Dopo la partita, l’allenatore avversario, Uri Hoenig, rilasciò queste parole al TheJerusalem Post: “Sono contento di aver perso contro una squadra araba. È una piccola consolazione nonostante la sconfitta. Spero che ciò migliorerà la nostra società e l’uguaglianza nella nazione”.

In effetti così è stato. Nell’agosto del 2005il club ha ricevuto da Arcadi Gaydamak, un milionario ebreo russo, nonché presidente degli acerrimi rivali del Beitar Jerusalem, 400 mila dollari per via degli sforzi che l’Ihud Bnei Sakhninha compiuto nel processo di pace e armonia tra le popolazioni di Israele. Due mesi più tardi, l’emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa Al Thani, ha donato 10 milioni di dollari per la realizzazione di uno stadio all’avanguardia, altri soldi li ha messi lo stato israeliano e nel 2006 viene inaugurato il Doha Stadium. Qatar e Israele hanno lavorato uniti per la realizzazione del progetto. Ora, grazie allo stadio, nella scuola calcio si formano campioncini che un giorno approderanno in prima squadra, bambini arabi ed ebrei che imparano sin da piccoli a convivere e a fidarsi l’un l’altro. Perché niente unisce più di uno sport. E questo a Sakhnin lo sanno bene.

“Non c’è religione. Non ci sono arabi, né ebrei, né stranieri. Siamo un’unica famiglia.” Parola di Abbas Suan, capitano del Figli di Sakhnin Uniti.

 

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