La linea sottile tra legalità e abuso della professione nella medicina non convenzionale.

A cura di Ilaria Di Blasio-

Ogni cosa ha il suo tempo ed ogni epoca ha la sua evoluzione. Nel corso degli anni la medicina ha raggiunto traguardi nuovi ed è approdata in porti prima d’ ora sconosciuti. Secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione la professione medica si estrinseca nell’ individuare e diagnosticare le malattie e nel prescriverne la cura.  In ambito curativo hanno assunto rilevanza alcune pratiche che non attengono alla medicina scientifica tradizionale e che, non a caso,  sono state denominate medicine non convenzionali. Questa pratica medica di nuovo conio ha assunto il volto giovane di una nuova frontiera della medicina che si è affiancata, pur subendo non poche critiche, alla medicina tradizionale ed è stata oggetto di studio e disciplina in molti paesi dell’ Europa. In Italia, tuttavia, l’ attività medica è posta su un piano prettamente scientifico ed è per tale ragione che la medicina non convenzionale non trova spazio nella definizione di atto medico inteso quale attività svolta dal sanitario in ambito preventivo, diagnostico, curativo e riabilitativo. La legge e la giurisprudenza hanno vissuto e vivono ancora oggi un conflitto lacerante in materia ed hanno percorso due cammini separati e tortuosi. La legge, infatti, ha ritenuto per lungo tempo che la medicina non convenzionale, non costituendo attività medica, potesse essere esercitata da chiunque senza incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione ai sensi dell’ art. 348 del codice penale. Basti pensare alla pronuncia della Corte Costituzionale in materia di chiropratica che ha stabilito l’insussistenza del reato di abuso della professione dal momento che non si prevede alcuna abilitazione per l’esercizio della pratica oggetto di controversia. La giurisprudenza, cambiando decisamente rotta, ha superato l’ impasse favorendo la tutela individuale e collettiva della salute intesa quale diritto fondamentale.  La Suprema Corte, dal canto suo, ha stabilito la necessità del conseguimento della laurea in medicina in materia di medicine non convenzionali quali ad esempio l’agopuntura, l’omeopatia, l’induzione ipnotica poiché, sebbene non costituiscano oggetto di studio universitario, esse possono essere esercitate solo da medici in funzione della necessaria conoscenza della medicina e della chirurgia al fine di ottenere una formulazione esatta della diagnosi e un consapevole esercizio del percorso curativo. Paradossalmente, dunque, si dovrà assurgere alla conclusione che una pratica non convenzionale è considerata atto medico quando è oggetto di insegnamento accademico, ma anche quando emergano decisioni giurisprudenziali che la qualifichino tale. E’ una conclusione che, a ben vedere, lascia aperto ampio spazio alla riflessione e forse ancora di più alla perplessità e al dubbio. In un simile sistema dinamico la medicina non convenzionale vive un conflitto che si insinua nella mente del medico e allo stesso tempo del giurista. Esiste una linea sottile colma di incertezze, forse troppe, che separa la legalità della medicina non convenzionale e l’abuso di professione. Il giurista e il medico, proprio come farebbe un equilibrista, percorrono questa linea pervasi da un forte senso di vertigine che solo un grande vuoto è in grado di provocare. Sotto quella linea sottile serpeggia un vuoto, un grande vuoto normativo. Il legislatore, da un punto di vista critico, lascia il giurista nel deserto di una dispersiva e confusionaria valutazione caso per caso e non concede ancora oggi una disciplina unitaria in materia di medicina non convenzionale. 

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