DAJE CHE FACEBOOK CE DA’ VISIBILITA’

A cura di Filippo Piluso
Facebook ci ha dato l’illusione di avere un’estensione di pubblico più ampia , e vuoi o non vuoi alle lunghe anche i più restii a piegarsi alle regole del mercato, vuoi per riservatezza, vuoi per indignazione di fronte al nichilismo portato al trionfo da questi, ci entrano dentro. Molto spesso questi che ci entrano sono quelli che di cose da dire e molto spesso da compiere nella vita ne hanno veramente. Forse per mancata accettazione che un post che titola “me so er cazzo” postato da un classico profilo di foto da scoglio con frase estratta dal testo di un hit dell’estate dalla costruzione ungarettiana , che con la foto di profilo non c’entra mai niente, ottenga tra i 100 e passa mi piace, non è cosa che, ai ritardatari dell’iscrizione al social o piuttosto ritardatari nella scrittura delle proprie riflessioni con ritmi costanti, va giù tanto. E’ sì perché in realtà questa visibilità in più l’hanno avuta quelli, che come diceva “santo” Umberto Eco, avevano diritto di parola solo al bar, e in certi casi aggiungerei neanche lì, dato che anche lì vige una micro-gerarchia. E allora eccola l’illusione che a noi buone penne, e non intendo necessariamente professionalmente, ma intendo più genericamente autori di riflessioni sempre sopra la superficie, ci ha dato st’invenzione fondata da visionari della moneta-facile. I canali dell’editoria, la radio e la televisione ti facevano passare solo i veri talenti (chiaro che sulla tv il discorso sia più complesso) o quantomeno non i deficienti, nel senso più etimologico del termine. Nessuno si poneva il problema della grande visibilità non avendone i mezzi. L’economia del consumo secondario e materiale funziona così, se nessuno ti dà il bene non ne nasce il bisogno . E allora rovescio della medaglia: grande visibilità ai re del nichilismo, e lotta durissima per i vari talenti per farsi sentire. E quindi le buoni menti e le buone penne sono indotte a piegarsi al facile usa e getta del post, per mancata accettazione che siano così surclassati. Alla fine più o meno tutti ci pieghiamo a delle leggi del mercato così forti, invece di eternizzare i nostri scritti su un articolo, in un libro, in un intervista. Ci sfoghiamo e addio labor limae di giornate per confezionare un prodotto da consegnare a un pubblico selezionato, dove passati 2 giorni, con i mi piace dei pochi ritardatari e commenti annessi, finisce tutto nell’oblio. Nessuno andrà a rivedere il tuo post prima che tu sia diventato personaggio pubblico, ma l’articolo si, l’intervista sì, il libro sì . Non solo non ti puoi più selezionare il pubblico, ma anche il pubblico più formato, al quale è realmente destinato quel post, viene contagiato dalla velocità del social : uno zapping consueto che ti porta per pigrizia-indotta a restare più fermo sull’immagine, sul video piuttosto che restare 5 minuti a leggerti un post di 5000 caratteri. E se putacaso quel post si rende comprensibile a quelli che il tuo articolo pubblicato su blog o cartaceo non gli avrebbero mai dato un’occhiata , eccoli lì i commenti più male argomentati, e tu, buona penna, stai lì a perdere del tempo a rispondere a quei commenti mossi da una mente che non conosce nemmeno il significato di Dialettica. Poi avoglia a dire “non ho tempo”. Forse perché proprio il tempo passato sul social è una dimensione metafisica ci porta a non renderci conto dell’effettivo minutaggio perso ogni giorno . E fossero poi solo le buone penne a perderci; l’illusione è anche la partecipazione ad eventi data da soggetti la maggioranza dei quali non si presenterà mai sul posto, figlia solamente di un meccanismo indotto al clic facile. Quanti sono i cliccatori seriali , gli autori dei mi piace fissi, che mettono sempre Partecipo all’Evento e non si presentano mai e dico mai all’evento e, se li chiami direttamente, sono quelli che ti diranno sempre che non hanno tempo. E’ come se la possibilità di vedere quel prodotto virtualmente che sia un post o un video in cui si fa mostra delle proprie abilità, esaurisca già quella curiosità che è ontologica nell’uomo e non invogli più il soggetto a toccare con mano il prodotto, “tanto ar massimo lo posso vede sempre su YouTube!” L’illusione di maggiore visibilità è quella che porta a far uso della pubblicità, e diciamolo che Facebook campa grazie ai titolari delle pagine che mossi da questa illusione spendono quattrini per guadagnarci tanti mi piace, e poi, nel dunque, se si tratta di ristorante si conquista al massimo un tavolo prenotato in più se non sei imprenditore che ci può investire 500 euro in pubblicità, se di concerto due ex compagne di liceo che nei 5 anni non ti hanno mai sentito e se di presentazione del libro di un autore locale due signore di mezza età che sanno dell’evento in quanto onnipresenti sul social. Quei partecipo in più, quei mi piace in più li mandano a letto tranquilli . Difficile è trattenersi quando senti ancora dire che Facebook nasce per far rincontrare le persone, senza rispondergli che quelle persone non si sarebbero mai rincontrate se non ci fossero dietro neo-imprenditori, artisti e chi più ne ha più ne metta, a mettere gettoni per far funzionare una macchina dal fatturato annuo di 27,638 miliardi di dollari. Anche quando poi non arrivano entrate per l’amico Mark, sempre quelle buoni menti che nella loro vita le foto le avevano al massimo sviluppate per attaccarle sul muro della cameretta , sentono l’esigenza di vendere il proprio intimo in un sistema di gara di apparenza della quale Instagram è padrone. Aggiunto luogo, date, presunte emozioni vissute, i dati sono nelle mani di una rete infinita di essere umani, che conosceranno per sempre, chiaramente secondo l’immagine idealizzata data dal post , i c…. tuoi (rebus n.121 della Settimana Enigmistica). Tra questi, molte volte, figurano i futuri datori di lavoro, che della tua vita in vacanza e delle tue passioni, spesso parecchio lontane dal lavoro svolto, non dovrebbero mai metterci piede , ma a costo di sentirci aggradati dai dei soggetti virtuali e aumentare quei 15 minuti di gloria di Andy Warhol a una vita intera, sacrifichiamo la nostra riservatezza, i nostri gusti rendendoli anche più appetibili a una rete di pubblico indefinita. Ma forse una parte restante di queste buone menti vive nel sogno che un sistema si possa cambiare piegandosi prima alle sue regole.

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