I mali del sistema previdenziale vanno curati con la crescita economica.

A cura di Leonardo Cappuccilli-

Con la fine della pausa estiva e l’incedere dell’autunno stiamo entrando nel periodo più caldo -politicamente parlando- di questo ultimo scampolo di legislatura. Tra gli ultimi atti di questo Parlamento vi sarà, infatti, l’approvazione della legge di bilancio per il triennio 2018-2020. La strada indicata dal governo è oramai tanto nota che quasi non desta più interesse: gli sgravi fiscali per le imprese che assumeranno i giovani d’età inferiore ai 29 anni (o ai 32, se l’Italia riuscirà a ottenere il nulla osta della Commissione UE) senza licenziare gli attuali dipendenti saranno lo strumento cui verrà dedicato il maggiore sforzo in termini di maggiore spesa pubblica.
Dal primo partito di maggioranza si leva, però, già da qualche giorno, una voce lieve ma ferma e consapevole del peso delle sue parole: le elezioni politiche sono prossime, e il governo non può dimenticarsi dei pensionati. Essi, infatti, a differenza di moltissimi under-30, votano ancora, ed è probabile che Renzi abbia percepito un calo di popolarità tra la popolazione anziana, forse dovuto anche all’introduzione, nell’ultima legge di stabilità, dell’Anticipo Pensionistico (e in effetti la percezione pare esatta, stando ai sondaggi). L’opinione pubblica sembra non aver gradito, infatti, la scelta del precedente governo di demandare alle banche l’erogazione dei prestiti con cui i neopensionati potranno ottenere un anticipo della prestazione previdenziale che sarà effettuata a loro favore.
L’auspicio dei dirigenti del Partito Democratico sarebbe, dunque, quello di inserire nel prossimo bilancio un bonus di 40 euro per gli anziani con un reddito annuale inferiore agli 8mila euro, per una spesa complessiva pari a circa due miliardi.
Il ragionamento del PD può forse avere senso dal punto di vista elettorale (anche se c’è da credere che persino Renzi si sia stancato di usare la parola “bonus”), ma un giudizio che intenda basarsi su considerazioni economiche non può essere altrettanto positivo.
In primo luogo occorre rimarcare quanto siano distanti nel nostro Paese le condizioni dei pensionati di oggi e quelle dei giovani occupati (45% circa) o in cerca di un’occupazione (37%): i primi percepiscono un reddito garantito dallo Stato e calcolato in percentuale dell’ultimo stipendio ricevuto, mentre i secondi, una volta raggiunta l’età pensionabile, beneficeranno di un assegno mensile stabilito in base ai contributi versati nel corso della propria vita lavorativa. Inoltre, non si deve dimenticare che le pensioni di oggi vengono finanziate grazie ai contributi delle imprese e dei lavoratori, e che di conseguenza, affinché il sistema non collassi, è indispensabile che il livello dell’occupazione cresca di pari passo con l’aumento dei pensionamenti provocato dall’invecchiamento della popolazione.
La povertà, fenomeno oggi preoccupante soprattutto nel meridione, va combattuta dunque favorendo con tutte le forze la crescita economica e l’aumento dei posti di lavoro, e non per mezzo di modesti sussidi: se in famiglia vi saranno più entrate sarà più agevole aiutare i genitori (o i nonni) incapienti.
In altre parole, la crescita del numero degli occupati favorirebbe non solo i nuovi assunti, sia nell’immediato che in prospettiva, ma anche i pensionati, per i motivi appena richiamati.
La crescita economica è tuttavia un obiettivo di lungo periodo, così come l’aumento dei livelli occupazionali, e richiede uno sforzo riformista mirato a rilanciare la produttività: l’efficientamento dell’apparato burocratico, la semplificazione normativa soprattutto in materia fiscale, il ripensamento della giustizia civile, il riallocamento della spesa pubblica a favore degli investimenti in infrastrutture necessarie alla collettività (trasporto su strada e su rotaia, telecomunicazioni, istruzione e ricerca) e a svantaggio della spesa corrente (sussidi alle imprese e alle famiglie, erogazioni necessarie al mantenimento delle società partecipate, sperpero di risorse all’interno della pubblica amministrazione) sono misure che difficilmente producono un rientro in termini di consenso popolare, e che perciò governo e Parlamento non metteranno in atto prima dello scioglimento delle Camere.
Oltre alla debolezza dell’economia nazionale, un’altra questione che minaccia la sostenibilità del nostro sistema pensionistico è l’aumento dell’età media degli Italiani: se il numero dei pensionati dovesse eccedere quello delle persone in età da lavoro, anche con una situazione di pieno impiego lo Stato avrebbe difficoltà ad effettuare le prestazioni previdenziali. Oggi lo scarto tra occupati e over-65 si aggira intorno ai dieci milioni (dati Istat, maggio 2017), ma è in diminuzione, e a destare preoccupazione è soprattutto il fatto che a breve ad andare in pensione saranno i baby-boomers, i quali costituiscono la generazione in assoluto più numerosa nella storia del nostro Paese. In riferimento a questa tendenza, il presidente dell’INPS Tito Boeri ha fatto notare che l’immigrazione può contribuire fortemente a risollevare le sorti della previdenza pubblica, dal momento che gli arrivi sono rappresentati soprattutto da giovani in cerca di occupazione, che una volta assunti verserebbero i contributi necessari a finanziare le pensioni.
Un simile discorso ci riporta alle considerazioni sullo stato di salute della nostra economia: essa dovrà essere in grado di assorbire (con modalità trasparenti e in conformità con la legge) la manodopera non qualificata che offrono i giovani migranti senza escludere i giovani italiani, i quali difficilmente decideranno di mettere al mondo dei figli se non avranno delle aspettative rassicuranti circa il proprio futuro.

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